La scuola italiana, ridicola, alle prese con la bufala #bluewhale rischia di creare danni a causa del fenomeno della emulazione? Si chiama “effetto Werther” e potrebbe essere alimentato da giornali e Tv.
Le reazioni a questa storia mi lasciano esterefatto e vi spiegherò perché, a mio avviso, è meglio che in questo caso la scuola non faccia nulla. La scuola italiana rischia infatti di cadere in un tranello, ma un tranello che essa stessa sta tendendo. Essa pensa di affrontare il problema del bullismo, del cyberbullismo e dei pericoli in rete catechizzando i genitori con degli inutili decaloghi e organizzando degli inutili corsi per gli insegnanti, evidentemente ritenuti non preparati a gestire fenomeni del genere. Ma parliamo di persone che, a volte, a mala pena riescono a mettere in funzione un pc, e c’è da dubitare circa la loro capacità di affrontare fenomeni di una complessità tale da non mettere d’accordo neanche gli addetti ai lavori.
Il risultato è quello di affidare a persone che non hanno le necessarie competenze argomenti così delicati, senza sapere cosa si trovano ad avere fra le mani, mentre in questa materia occorrerebbero professionalità di vario tipo, e un approccio cauto e multidisciplinare. Il suicidio infatti è sempre a rischio emulazione e contagio.
Qual è lo scenario che si pretende di disegnare? Che lo studente bullizzato chieda aiuto agli insegnanti?
Ebbene, a mio avviso, è improbabile che un ragazzo vittima di bullismo si rivolga allo stesso insegnante che lo valuta per chiedergli aiuto. Potrebbe farlo solo con una figura terza, percepita come amica, in grado di metterlo a suo agio perché è professionalmente preparata. Non è un caso che i sistemi scolastici che hanno fatto qualcosa di concreto per affrontare il fenomeno hanno istituito una figura apposita, il counselor, che agisce all’interno della scuola vivendo a stretto contatto con gli alunni. Si veda l’esempio finlandese.
E già preoccupa l’annuncio di sindaci e scuole di iniziative di “prevenzione” “per combattere il nuovo fenomeno Blue Whale”, un po’ come si fa per le epidemie di pidocchi, mentre la soluzione migliore sarebbe, come al solito, lasciare in pace i nostri bambini e ragazzi, non dare loro nuove idee. Chiunque sia genitore sa che non basta dire ad un figlio “non fare” quella cosa.
Nella serie tv statunitense prodotta da Netflix “Tredici” (13 Reasons Why) la figura dello psicologo a scuola assume una connotazione negativa perché non coglie i segnali della decisione della studentessa Hannah Baker di suicidarsi per una storia di bullismo. Figuriamoci quello che può accadere quando quella figura, come in Italia, neanche esiste. Quello che sicuramente mostra con efficacia questa serie tv è la distanza incolmabile tra il mondo degli adulti e quello degli adolescenti. E’ su questo che bisogna organizzare serie riflessioni. Su ciò che accade nei gruppi sociali costruiti non su internet ma racchiusi dentro involucri reali, fatti di mattoni e cemento: le famiglie e le scuole.
Con BlueWhale Challenge tutti stanno dando il peggio di sé: non si sa se sia un fenomeno realmente architettato da un astuto istigatore o una bufala, gonfiata ad arte per fare audience (ovviamente protendo per la seconda ipotesi), ma non è importante sapere quale sia la verità. Ciò che deve far riflettere è la reazione scriteriata dei media tradizionali e di internet (che però stavolta ne esce meglio con alcune analisi ben fatte), non la cosa in sé. Tanto che ci auguriamo che Berlusconi possa decidere di chiudere il programma televisivo Le Iene. Ma è troppo desiderare!
Alla fine ci si rende conto che si tratta di un fenomeno non reale, ma solo di natura emotiva e mediatica e solo in quanto tale ha acquisito concretezza. Anzi è proprio tale reazione a procurare potenzialmente il danno. E il danno si verifica non tanto e solo navigando in rete, ma quando ignari bambini di 9 anni o poco più tornano da scuola e raccontano a casa di BlueWhale, mentre nulla sarebbe accaduto se fossero rimasti a casa con dei genitori dotati di un po’ di senno. Invece la notizia varca la soglia di casa, mette una insana curiosità, i genitori presi dal panico, senza sapere neanche esattamente di cosa si tratta e diffondono a macchia d’olio l’allarme, complice una cattiva televisione, una cattiva stampa e le solite catene di Sant’Antonio su Whatsapp e gli altri social network.
Eppure, persino la polizia postale, ma anche la dott.sa Maura Manca, Presidente dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza (http://www.radio24.ilsole24ore.com/
L’esperto in materia di disinformazione Paolo Attivissimo, intanto, smonta BlueWhale pezzo per pezzo, e si capisce che la vicenda ha i classici contorni della bufala: si mettono insieme elementi veri che poco e niente hanno a che fare tra loro e il puzzle assume i contorni della verosimiglianza. I video di persone che si tuffano dai tetti non hanno nulla a che fare con il fenomeno; L’uomo arrestato in Russia, detto “master”, è stato in realtà arrestato nel 2016 e nulla ha a che fare con BlueWhale Challenge, ma solo con gruppi di istigazione al suicidio, senza conferme sul fatto che suicidi poi siano realmente avvenuti. Nessuno costringe con la forza a partecipare a questo gioco. Insomma, si tratta di quei fenomeni che esistono solo se qualcuno crede in essi.
Accecati dal fenomeno mediatico, ci si dimentica di ricordare che i ragazzi praticanti l’autolesionismo ci sono sempre stati, e non mi riferisco all’abuso di sostanze, ma all’autolesionismo vero e proprio, cioè coloro che si procurano tagli, in particolare sulle braccia. Ne ho visti con i miei occhi in ambito scolastico anche nei tardi anni ‘80 o inizio ‘90. Il bullismo scolastico, le risse all’uscita di scuola, la violenza, le umiliazioni, i gruppi che inneggiano al suicidio, i gruppi di mistero, quelli che fanno leva sulle curiosità e le paure adolescenziali non sono fenomeni nuovi, ma i genitori e la scuola di questo non si sono mai occupati. Anche l’adescamento online è un fenomeno noto. Ma solo ora che la balena blu viaggia sulla rete ci si accorge, e nel modo peggiore, di queste realtà. Perché? Perché in tal modo si può attribuire alla rete, e non ai propri figli ed alla propria famiglia le responsabilità.
E’ difficile sapere dove sia partita questa dinamica virale, ed ora che il fenomeno mediatico ha già avuto eco mondiale fioriscono gli emulatori, i mitomani, che potrebbero non avere nulla a che fare con chi ha originato il fenomeno, ma che sfruttano la grande curiosità originata da questa storia in cui sono caduti, con inutili sensazionalismi, anche i media mainstream.
La dinamica prevede la presenza di un curatore e di una vittima chiamata ad eseguire la sfida. Molte persone per curiosità hanno creato account appositamente per fingersi curatore o vittima, rispettivamente per aiutare le vittime o smascherare i curatori. Il gioco dura 50 giorni, una sfida al giorno, come ad esempio due giorni di privazione del sonno o la visione forzata di film horror. E’ inutile dire che sono nati come funghi pagine e gruppi che inneggiano contro la BlueWhale Challenge, senza sapere che gli atteggiamenti trasgressivi si alimentano a volte proprio per la curiosità, quando si verifica il lancio di simili anatemi.
Le sfide stesse non sono affatto cosa nuova sul web. Ci si accorda, con un gruppo, che però in un certo senso ti costringe a compiere delle azioni, con dinamiche simili al bullismo. Si viene nominati e si è vincolati ad eseguire la sfida. Si va da innocenti fotografie fino alle bevute di grosse quantità di alcool o altre amenità. Si tratta di percorsi relazionali antichi che tendono ad isolare l’individuo, a ricattarlo con la minaccia di rivelare qualche notizia sul proprio conto, instaurare così un controllo sociale e perfino un legame affettivo con il carceriere. Ci si lega, in una certa fase, ad altri giocatori, in un gruppo cui ci si uniforma. Fenomeni di questo tipo, ripeto, non nuovi, non avevano mai avuto finora una risonanza come quella di BlueWhale.
La creduloneria, fino ad estreme conseguenze, non è neanch’essa cosa nuova. Così come non lo sono le bufale. Una volta si chiamavano ”leggende metropolitane” ed il web è solo uno strumento che amplifica questi fenomeni.
Le truffe basate sulla creduloneria non sono neanche un fenomeno ristretto al mondo adolescenziale. Cos’è che spinge, infatti, delle signore attempate a credere alle chiacchiere on line in un inglese o francese stentato di un ragazzetto Ghanese che si finge un ufficiale dell’aeronautica americano che le promette l’amore, ricevendo in cambio migliaia di euro in virtù delle cosiddette “truffe amorose”, dietro le quali si celano vere e proprie organizzazioni?
Un fenomeno analogo accade nei ragazzi nati in occidente, di famiglia islamica e che decidono di arruolarsi nell’Isis, oppure coloro che si fanno ingaggiare da gruppi satanici.
Insomma la rete al solito viene additata come responsabile di questi fenomeni virali, in realtà l’analisi va spostata nelle menti nelle personalità che sono in una situazione di difficoltà.
Qual è la soluzione? Distribuire psicologi in ogni dove? Non lo so. Però qualche idea qualcuno potrebbe averla.
Google, ad esempio, potrebbe implementare un sistema in grado di verificare l’origine di un fenomeno virale, attraverso l’utilizzo dei dati di cui dispone sulle chiavi di ricerca utilizzate in serie. Sapere che vari pezzi di una storia sono roba vecchia, sono incoerenti tra loro, a volte può già bastare a rendere il pubblico consapevole.
Una soluzione del genere però, uno dei tanti possibili tecnicismi, non andrebbe al cuore del problema.
Non si tratta, a mio avviso, come alcuni affermano, di mancanza di valori, piuttosto si potrebbe parlare di un vuoto. Un vuoto, di sogni, di passioni, di curiosità, di creatività, di relazioni positive, di contenuti, di spessore, di senso critico, un vuoto culturale. Questo vuoto rende deboli ma purtroppo è un vuoto che viene riempito e viene riempito di cose negative come ad esempio l’ansia, la paura, il vizio, la superficialità.