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Family Link. L’illusione del controllo parentale e il prezioso mercato dei teenagers

Pubblicato su 25 Maggio 2018 di Vito Palumbo

Da poche ore è attivo anche in Italia Family Link, http://families.google.com/familylink/ ,

Family Link arriva in Italia

Family Link arriva in Italia

il servizio Google dedicato alle famiglie per creare, gestire e controllare l’account dei figli e di conseguenza alcuni aspetti della vita digitale dei ragazzi, come la supervisione sulle applicazioini scaricate dallo store Google Play o sugli orari di utilizzo. L’app consente di attivare un account Google anche ai minori di 13 anni, mentre a 16 anni il minore si appropria del controllo completo, tagliando il cordone ombelicale digitale.
Da notare che chi avesse già attivato indebitamente un account per il proprio figlio al di sotto dei limiti minimi di età non può farlo rientrare sotto l’ala protettiva di Family Link. Google scrive infatti che “attualmente la gestione mediante Family Link di adolescenti che già dispongono di un account non è supportata.” Nessun problema per i baby-account creati ex-novo con la nuova app.
Qualcuno potrebbe obiettare che sarebbe meglio non acquistare uno smartphone o un tablet per bambini o ragazzi neo-adolescenti, se si teme che ne venga fatto un uso rischioso. C’è da dire però che finora di fatto i genitori, o altri adulti, aprivano per bambini minori di 13 anni gli account dichiarando una data di nascita gonfiata, ponendo fuori dalle regole la vita digitale del minore già quando era appena iniziata. È realisticamente inevitabile che il minore avrà prima o poi un proprio dispositivo mobile, ed esso sostanzialmente funziona solo se associato ad un account Google, Apple o Microsoft. Senza dubbio, è meglio che questo passo avvenga rispettando le regole di cui il ragazzo sia il più possibile consapevole. Ai tempi di Napster, azioni illegali come lo scaricamento di contenuti protetti dalle leggi sui diritti d’autore apparivano come una pratica da geek appassionati di informatica, cultori di quel mondo, da ricordare con nostalgia. Oggi la vita digitale dei nostri figli è affare più serio, pervasivo, ampio, profondo, allo stesso tempo irrinunciabile, e come tale da gestire con attenzione.

L’app non serve per filtrare contenuti pericolosi, ma per limitare più genericamente l’uso del dispositivo. Google ammette nelle FAQ del servizio che “Family Link non blocca i contenuti inappropriati, ma alcune app potrebbero offrire opzioni di filtro. Alcune app Google, come Ricerca e Chrome, offrono opzioni di filtro che puoi utilizzare con Family Link”.

Inoltre, paradossalmente, Family Link fa entrare i nostri pargoli ancora in fasce nel circuito pubblicitario identificandoli come tali. Google infatti candidamente ammette: “I servizi Google sono supportati grazie agli annunci pubblicitari, quindi tuo figlio potrebbe vedere annunci pubblicitari quando utilizza i nostri prodotti.” È da supporre che il bambino sarà profilato come tale e riceverà gli annunci pubblicitari targettizzati apposta per lui, con tutte le considerazioni che si possono fare a tal proposito.
Le obiezioni che però si possono fare sono anche altre. Si può affermare infatti che Family Link sia in realtà una nuova trovata per incentivare l’apertura di account in una fascia di mercato estremamente appentibile come quella dei preadolescenti? Può essere vista come una strategia per offrire ai genitori l’illusione del controllo acquisendo nuovi utenti ammantati dalla sacra aurea della sicurezza gestita dalla famiglia?
In tutto questo brilla l’assenza della scuola e delle istituzioni statali. Eppure, se l’argomento è l’identità digitale di un cittadino, ancorché minore, esistono le tecnologie sufficienti perché la “carta di accesso” dei nostri figli nel mondo digitale possa essere un affare gestito da istituzioni con finalità formative come la scuola, magari su piattaforme open source come Linux. In tal modo i nostri ragazzi vivrebbero il digitale come ambiente di crescita personale, anche di svago, ma con una impostazione educativa, almeno per capire che con quegli strumenti si possono fare tante cose più interessanti rispetto a quelle che calamitano l’attenzione di miliardi di persone per la gran parte del loro tempo. Invece no. I dispositivi nelle mani dei nostri ragazzi, nonché dei nostri insegnanti, pare debbano essere per forza avere il marchio dei colossi che fondano il loro business sulla cattura della vita attenzione allo scopo di fare raccolta pubblicitaria e vendita di servizi.

Google ha perso una buona occasione per decidere di tenere fuori i bambini dai meccanismi di raccolta dei dati e profilazione.

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Polarizzazione ed elezioni. Internet Divide et impera. Da luogo di libertà a strumento di oppressione?

Pubblicato su 21 Dicembre 2017 di Vito Palumbo

 

La Polarizzazione nei social network

Polarizzazione. A chi conviene? Facebook può davvero condizionare le elezioni? Come uscire dalla bolla?

La personalizzazione dell'advertising

La personalizzazione dell’advertising

C’è bisogno di una grande presa di coscienza rispetto a come si sta evolvendo Internet in questi ultimi tempi.
La rete rischia di diventare fonte di disgregazione del tessuto sociale, e forse può anche condizionare lo sviluppo di cervelli in fase di crescita o privi di un sufficiente senso critico, oltre a rischiare di causare distorsioni, prima di tutto nel mondo dell’informazione.
A fronte della crescita vertiginosa ed entusiasmante dei social network si verificano ora fenomeni gravi come la dislocazione in fazioni dei trend informativi.

Facebook può davvero condizionare le elezioni? La polarizzazione conviene a qualcuno?
Si sta facendo largo la tesi che che queste dinamiche si inneschino perché creano engagement, grazie a meccanismi di gratificazione. Ciò equivale ad un incremento notevole di traffico web, con una notevole crescita di un mercato pubblicitario in fuga dai mezzi di comunicazione tradizionali.

A fianco della disinformazione appare più semplice far passare tendenze che spingano per un ritorno ad un cinico realismo, un reality check, con, ad esempio, proposte shock che rischiano di passare. Ad esempio, l’abolizione della net neutrality e un “laissez faire” su temi come il “riscaldamento globale”. Questo dopo gli anni di Obama che sono stati all’insegna, almeno idealmente, del politically correct, ma anche dell’etica della responsabilità.

Il salto di qualità si ha quando ci si rende conto non solo che gli Stati Uniti d’America vedono un altro paese, con il Russiagate, condizionare le proprie elezioni presidenziali (cosa, d’altronde che hanno fatto loro stessi in passato), ma che ciò è stato fatto con degli strumenti che gli USA stessi hanno messo a disposizione del mondo intero, ovvero i social network e il meccanismo economico che gira intorno ad essi.

 

Che fine ha fatto l’internet degli albori

Che fine ha fatto la rete che sognavamo negli anni ’90? Ci collegavamo con un modem a 56k, e internet ci faceva anelare un futuro in cui il trionfo della libertà, dell’informazione, della conoscenza, promessa dal tumultuoso progredire della tecnologia, avrebbe fatto progredire scienza, ricerca, benessere, cultura presso tutti gli strati della popolazione.

L’emblema della volgarizzazione della rete sono i social media che, a suon di miliardi di dollari stanno cambiando radicalmente il modo di comunicare in pochi anni, ma secondo alcuni stanno anche mettendo a rischio la democrazia, come ha titolato recentemente The Economist in copertina. Può la rete essere considerata una nuova arma nelle mani delle oligarchie? Oppure essa è solo uno strumento potente, che consente di far venire a galla fenomeni sempre esistiti ed atteggiamenti che sono connaturati nella natura umana? Qualcuno lo aveva previsto? In effetti, qualche avvisaglia c’era stata almeno qualche decennio fa, quando Radio Radicale, aprendo le linee telefoniche alla libera espressione, senza filtri, aprì uno spaccato socio-psicologico impressionante. Fu come sollevare il coperchio di una fetida cloaca. Negli anni 2000, il successo dei reality show aveva fatto presagire la voglia della gente comune di rendersi in qualche modo protagonista e non solo più pubblico passivo.

Uno dei fenomeni più deteriori dell’internet di oggi è quello della post-verità, della contraffazione della realtà, fake news, delle bufale, siano o meno diffuse casualmente, per divertimento, o con qualche scopo. Sta, a dire il vero, diventando un tema stucchevole, abusato. In realtà non si tratta di un fenomeno monolitico, ma variegato e complesso, essendo la complessità il fenomeno che sta caratterizzando sempre più i nostri anni.

La stessa complessità può essere un’arma di disinformazione. In Cina, ad esempio, non è ormai possibile bloccare tutti i contenuti in opposizione al regime al potere, ma questi vengono affogati in un oceano enorme di contenuti generati da forze vicine al governo, e risultano pertanto invisibili.

Sembra di vivere in un mondo dove tutto è possibile, qualsiasi certezza sembra poter essere sovrascritta da una realtà rappresentata grazie a formidabili strumenti di allestimento di una grande Agorà, fatta di Circenses all’interno dei quali tutti hanno diritto di parola. E la verità, i fatti acclarati dalla scienza, i cui metodi di accertamento si sono consolidati nel tempo? Vengono messi in dubbio e in un mondo dove domina la menzogna una versione distorta della realtà, chi intende riportare tale rappresentazione all’interno dei binari della verità viene bollato come folle, corrotto, asservito.

Con il progredire dell’intelligenza artificiale, basata sulla “pattern recognition” si rendono disponibili strumenti in grado di manipolare con livelli qualitativi elevatissimi, tempi rapidi e costi contenuti immagini, video e suoni. In pochi secondi è possibile setacciare enormi banche dati di immagini, trovare quelle che contengono oggetti, luoghi, persone e modificarle in tempi enormemente più veloci rispetto ai classici strumenti di editing e con risultati strabilianti. Basti pensare alle app che in un secondo riescono a ringiovanire un viso, o a renderlo più gradevole, più effemminato, variarne lo stile, i colori, oppure i tratti somatici di un sesso o l’altro, oppure a quell’esperimento che ha reso possibile utilizzare la voce di Obama o altri personaggi per leggere un testo qualsiasi.
La previsione che si può fare oggi è che entro pochi anni, non avremo più la certezza della veridicità di un qualsiasi prodotto multimediale.

Qualcuno ricorda il fenomeno Blue Whale? Quanto è realmente accaduto di ciò che si paventava con preoccupazione? Nulla, sostanzialmente, nonostante la mobilitazione generale, anche di qualche sindaco zelante, che riempì per alcune settimane le cronache. Un fenomeno virale ed esclusivamente mediatico. Una vicenda, col senno del poi, tragicamente affascinante, che non ha avuto alcuno dei temuti esiti, ma che con l’opera di disinformazione inconsapevolmente fatta, pur con buone intenzioni, rischiava di innescare pericolosi fenomeni di emulazione.
Oppure, andando più indietro negli anni, vi ricordate dei BonsaiKitten, lo scherzo dei gattini sottovetro di uno studente dell’MIT, con tanto di Licia Colò e tanti altri che si stracciavano le vesti. Sembra passato tanto tempo, sotto i ponti della disinformazione è passata tanta acqua, ma il fenomeno, benché amplificato a livello globale, pare avere la stessa origine.

Ormai vi è una letteratura fantastica sulla disinformazione molto corposa che inizia ad avere uno spessore storico e che precede l’avvento della rete, ma che con i social network ha avuto un grande incremento avendo questi costituito un’arma potente al proprio servizio.
Negli ultimi anni il fenomeno ha compiuto un salto di qualità, arrivando a creare gruppi di milioni di persone che, grazie alle nuove possibilità di aggregazione forniti dai social network, stanno condizionando pesantemente vari ambiti della nostra società in nome di un articolata serie di teorie che possono essere riferibili ai termini “complottismo” o “disinformazione”. C’è chi ha definito il fenomeno come un nuovo medioevo ovvero il “Cialtronevo”.

Ci sono coloro che credono nella “Terra Piatta”, c’è chi non batte ciglio assistendo ad un video che sostiene che gli attentati dell’11 settembre, o di Barcellona, per fare solo alcuni esempi, siano delle messe in scena, e non solo, condividono con altri questa loro convinzione, quasi a voler svegliare il mondo da una sorta di sonno collettivo. Come è possibile che possano avere così tanta diffusione fenomeni di comunicazione così strampalati?

Il complottismo ha origini storiche. Già Hitler, utilizzava porre nei suoi discorsi un complotto mondiale come nemico contro cui creare una grande Germania, ed i nemici erano i soliti: ebrei, neri, omosessuali. Paventare un nemico comune forniva un’arma in più per tenere sotto scacco un popolo intero.

Nei tempi più recenti, non senza ritardo, si è creata una corrente opposta, i Debunker, tra i quali potrebbero essere annoverati il giornalista Mentana e il medico Burioni, che ribatte colpo su colpo le tesi delle medicine alternative o propugnatori di riti dal sapore sciamanico, come le mamme che conservano il cordone ombelicale sotto sale.
Molti blogger e youtuber ribattono colpo su colpo le tesi complottiste, ma spesso senza lo spessore del giornalista d’inchiesta. C’è il sospetto perfino che finti contenuti di debunking siano pubblicati ad arte per additare il nemico e rinfocolare la polarizzazione. Si è anche osservato che lo scontro non serve a cambiare le cose.

La storia della disinformazione sul web è davvero lunga e pare un fenomeno che sta assumendo delle dimensioni preoccupanti. Andando ad analizzare il fenomeno con attenzione si può affermare che esso possa avere importanti effetti, non solo sul sistema dell’informazione, ma anche sulle dinamiche a livello di mercati e della politica con pesanti condizionamenti sulle scelte dei cittadini, nelle loro vesti di consumatori, produttori, elettori, cittadini.

Nel settore alimentare, cosmetico e di altri beni di largo consumo, ad esempio, circolano informazioni, sulla nocività di ingredienti, o processi produttivi, non sempre confermate che stanno condizionando le dinamiche dei dati di vendita.

E’ possibile sostenere che siano gli stessi complottisti ad essere in realtà una categoria a forte rischio di manipolazione da operazioni orchestrate ad arte.

L’appartenenza alle reti di fautori di teorie di disinformazione assume dei connotati sempre più vicini a quelli di una setta o di un credo religioso. Non a caso, l’Isis ha utilizzato in maniera analoga il web come piattaforma di reclutamento e di azione.

Perché all’homo sapiens piacciono le bufale

 

In certi momenti viene quasi da pensare che milioni di anni di evoluzione di lento progresso della conoscenza della specie umana abbia portato anziché ad una società composta da persone in grado di ragionare in base alla cultura ed alla conoscenza derivante dal sapere e dal progresso scientifico ad un mondo in cui arricchendo pochi personaggi come Mark Zuckerberg siamo chiamati a partecipare ad un circo Barnum che sfrutta le nostre più basse curiosità e debolezze per carpire la nostra attenzione.

A ben vedere però, il pettegolezzo, la chat inutile, la storia inventata, la bufala, benché fenomeni detestabili, rispondono anche a delle esigenze di socialità e di trascendenza proprie dell’homo sapiens. Secondo Yuval Noah Harari autore di recenti saggi fondamentali per capire la storia dell’uomo (tra i quali Homo Deus: A Brief History of Tomorrow e Sapiens: A Brief History of Humankind), l’homo sapiens ha potuto avere una marcia in più e conquistare il mondo perché è riuscito a concepire dei totem, dei simboli evocativi in nome dei quali un numero di persone non limitato ad una piccola tribù potesse agire e fare massa, riuscendo così a compiere imprese prima impossibili. Evocative di ciò possono essere le sequenze dei film dedicati alle grandi battaglie del passato, dove due masse composte da migliaia di uomini si scontrano. Tra tali simboli aggreganti non possiamo non annoverare le fedi religiose, soprattutto quando esse strumentalizzavano, o erano strumentalizzate, dal potere politico. È possibile che l’Uomo di Neanderthal, ad esempio, non avesse queste speciali capacità di coalizzarsi e ragionasse in maniera più “concreta”, ma a quanto pare per noi non sempre questo è un bene assoluto.

L’assunto che l’uomo sia un essere razionale e si distingue dall’animale solo perché non agisce unicamente secondo l’istinto, cioè in base alla stratificazione atavica di esperienze, va rivista alla luce di queste considerazioni ed integrata.
Siamo una specie che facilmente commette errori di giudizio nel valutare i dati perché siamo facilmente manipolabili per alcuni aspetti. Non agiamo sempre in modo razionale, anche se ciò può portare danni alla propria persona.

Altrimenti non si spiegherebbero gli attuali comportamenti di violenza verbale in rete, da una parte (con tanto di nome e cognome), e il successo della strategie di propaganda tese a condizionare le masse, dall’altra, senza che apparentemente ciò apporti dei vantaggi concreti, ma solo effimere gratificazioni estemporanee, con la classica botta di adrenalina (o dopamina?) che crea una sorta di dipendenza.

Secondo alcuni, siamo vittima di una sorta di bug congenito. “Siamo fallati” ha affermato l’esperto di web Matteo Flora. I cosiddetti Bias Cognitivi fanno parte dell’essenza della specie homo sapiens, anche se probabilmente sono serviti a decretarne il successo.

E’ facilmente immaginabile, fin dalla notte dei tempi, che nelle tribù, la sera, complici le tenebre e davanti ad un fuoco, il gruppo di umani si mettesse ad ascoltare storie mitiche tramandate di generazione in generazione, leggende, raccontate dal vecchio del villaggio. Non c’è apparentemente un legame con le battaglie contro altre tribù o le battute di caccia che avrebbero impegnato il mattino dopo i membri più forti del gruppo. In realtà, la fascinazione prodotta dal mito raccontato in quelle storie potrebbe aver consentito all’homo sapiens di creare la sufficiente coesione di comunità che lo ha reso conquistatore del mondo, ma che allo stesso tempo ha reso la gran parte della popolazione spesso schiava e succube di quello stesso mito, specialmente in alcune fasi storiche. Il metodo scientifico, il pensiero razionale, lo stato di diritto, l’illuminismo, hanno hanno solo fornito una visione diversa del mondo, ma sono stati ben lungi dal sottrarre completamente l’umanità dall’oppressione, soprattutto quando Cesare e Dio si univano, assieme, in un potere di natura religiosa e temporale.

L’emotività, la fascinazione, la trascendenza ed altri atteggiamenti esterni al metodo logico razionale tipico della scienza, condizionano le nostre scelte più di quanto pensiamo. E in un certo senso ciò costituisce anche parte del nostro successo, anche se può trattarsi di un successo di breve periodo ed effimero. Ad esempio, secondo gli esperti di neuromarketing, l’emotività è funzionale alla decisione. Se ci sedessimo al tavolo di un ristorante di fronte ad un menu, oppure semplicemente ci recassimo a fare acquisti in un supermercato e nel nostro cervello fosse spenta la componente emozionale, staremmo lì ore ed ore a soppesare ogni singolo aspetto senza essere capaci di operare una scelta. La componente emozionale, invece, taglia la testa al toro e fa pendere la bilancia da una parte, anche se magari ciò non ci porterà alla scelta migliore. Peccato però che i punti sensibili, sollecitando i quali si colpisce il nostro intimo sentire, sono anche quelli che possono essere manipolati astutamente da chi sa, per averli studiati, andare a toccare i tasti giusti.

Il ruolo dei bias cognitivi nella disinformazione

Quando l’uomo si pone di fronte ad una domanda, un problema da risolvere, spesso si trova ad offrire non la risposta razionalmente più giusta, ma quella più bella e semplice, anche se sbagliata. Si mettono insieme solo le informazioni di cui si è in possesso o valide secondo dei pregiudizi o degli schemi mentali consolidati, e pur non essendo esse in grado da sole di dare insieme una prova logica e sensata di un giudizio, appaiono sufficienti per formularlo, ma alla prova dei fatti esso si rivela distorto. La necessità di formulare un giudizio risponde all’insopprimibile bisogno dell’uomo di sentirsi parte di una comunità, offrendo all’esterno una certa immagine di sé che si ritiene possa essere apprezzabile.

Nell’era di internet, nella quale si è giunti ad una situazione di “over-complessità”, anziché trarre beneficio dalla disponibilità delle informazioni, siamo affetti da un sovraccarico cognitivo, detto anche Information overloading, ovvero quel fenomeno per cui una eccessiva dose di informazioni rende la decisione impossibile. La guerra per carpire la nostra attenzione vede schierate due forze impari: le migliori menti del pianeta sono pagate per tenerci incollati di fronte ai nuovi mezzi di comunicazione, dall’altra ci siamo noi, esseri ancora poco consapevoli degli strumenti che ci troviamo ad usare ma che ci piacciono così tanto.

Tra i Bias Cognitivi che stanno agendo con più forza nelle reti sociali su internet c’è il “Bias di Conferma”, ovvero un processo mentale che ci porta a fare nostre quelle informazioni che confermano le nostre convinzioni e a ignorare quelle che le contraddicono, oppure ad avversarle con violenza, in virtù di un atteggiamento detto “back-fire effect” che fa in modo che esposti ad una tesi avversa ci si arrocchi ancor di più sulle proprie posizioni, pur sbagliate.

Internet fornisce degli strumenti fenomenali a sostegno di questi Bias perché rientra nelle strategie tese a catturare la nostra attenzione. Le più recenti strategie di web marketing si basano infatti su una sempre più estrema personalizzazione, basata sulla enorme mole di informazioni che, più o meno consapevolmente, fornisce il nostro comportamento online.
I risultati di Google non sono neutri ma personalizzati in base all’utente, ciò per fornire le informazioni ricercate con una maggiore velocità, così come la timeline di Facebook che viene costantemente raffinata per farci vedere con priorità prima di tutto ciò che ci interessa.

In tal modo si verifica un fenomeno per cui due persone possono vivere nel web in due mondi diversi. Due bolle, le cosiddette Bolle di Filtraggio (Filter Bubble) che tendenzialmente non si uniscono mai. Chi, ad esempio, ignora il calcio, sia in senso negativo che positivo, non si accorgerà di cosa succede nel mondo del calcio, che è per i tifosi un mondo vasto, muove emozioni, soldi, discussioni, perché il web lo sa e ci accontenta, ci mostra altro. Per noi è come se il calcio non esistesse.
Il “Confirmation Bias” è dunque anche un freno alla emersione di nuove idee. Se tante persone danno ragione a una idea, anche tu tenderai a conformarti. Si è influenzati verso il fatto che quell’idea sia vera, anche se prima la si riteneva una fandonia. Ci si conforma. Ci si segrega. Fa parte della natura umana. Se siamo già all’interno della bolla ancor di più la nostra opinione è radicalizzata verso un polo, da una parte o dall’altra della barricata.
Diventiamo così manipolabili esacerbando la violenza e esacerbando la sensazione che molti siano d’accordo con noi. Tra i due poli si crea una muraglia insormontabile, e dividere le persone in due blocchi è diventata un’operazione troppo semplice.

Gli effetti imprevisti della personalizzazione dell’advertising

 

Quella della personalizzazione sempre più spinta in ogni possibile mezzo di comunicazione è una tendenza sulla quale il mercato pubblicitario punta facendo tesoro delle nuove tecniche non appena si rendono disponibili. Si sperimentano persino cartelli stradali che si adattano alle persone che passano davanti, messaggi che giungono sullo smartphone quando si permane in un esercizio commerciale, insomma ciò che abbiamo già visto qualche anno fa nei film di fantascienza come Minority Report.

La personalizzazione va anche oltre ciò che coscientemente dichiariamo su di noi. Possiamo anche non dichiarare che abbiamo una relazione di coppia e di che tipo, dove siamo andati in vacanza, se abbiamo un’automobile di grossa cilindrata o una utilitaria, a quale di due 4 o 5 mood apparteniamo. Sarà l’intelligenza artificiale a setacciare in pochi secondi anni di dati, dei quali non abbiamo neanche la esatta percezione, e delineare né più e né di meno quella che è la nostra coscienza. La rete possiede di noi quanto di più intimo potrebbe esserci, la coscienza. E ne tiene traccia potenzialmente per tutta la nostra vita e condizionando la memoria futura del nostro passaggio terreno.

I grandi player di Internet sostengono che ciò va a tutto nostro vantaggio: meglio un messaggio pubblicitario con prodotti e servizi che ci possano potenzialmente interessare che altri che non vengono incontro ai nostri gusti. Lo stesso avviene con i contenuti delle reti di ricerca.
La personalizzazione, anche se non consente all’azione di marketing di raggiungere una singola persona, perché ignota, può raggiungerla in quanto facente parte di uno strettissimo “funnel”, un imbuto che restringe in maniera sempre più precisa il cerchio disegnato attorno a noi sulla base di una lunga lista di parametri che più o meno consapevolmente abbiamo descritto attorno a noi.
Che si desideri o meno far parte di questa targetizzazione spinta, rientra nel proprio libero arbitrio di cittadini e consumatori. E’ importante però che ci sia consapevolezza, e per avere consapevolezza, occorre una informazione completa e non superficiale di aspetti non sempre alla portata di tutti.

La personalizzazione incide anche sui nostri percorsi di formazione e crescita personale.
Da bambini degli anni ‘70-’80 i nostri programmi tv preferiti ad un certo punto finivano e le alternative erano spegnere la tv o trattenersi un po’ e guardare le trasmissioni seguenti destinate ai genitori o ai fratelli più grandi. La vecchia televisione potrebbe apparire, agli occhi di una persona che vive internet, un media limitante la libertà di scelta. Con pochi canali, per di più di proprietà dello Stato. Dopo la fine dei propri programmi preferiti, un bambino però poteva ascoltare distrattamente un telegiornale, vedere uno spezzone di un film, una varietà del sabato sera con esibizioni artistiche di vario tipo, insomma dei contenuti non dedicati al pubblico dei ragazzi ma che potevano incuriosire, far intuire sprazzi di qualche possibile passione futura. Oggi vi è invece la più estrema targettizzazione del pubblico, decine e decine di canali destinati alle varie fasce di età e sesso. Tralasciando giudizi sulla qualità delle opere, si assiste ad un continuo replicare le solite puntate di cartoni animati ad ogni ora del giorno e della notte. Ai bambini viene in questo modo somministrata una dieta mediatica che impedisce loro di assistere a contenuti che possano stimolare la curiosità verso il mondo in modi diversi. Li si educa insomma a vivere in delle bolle ognuna delle quali viene abbandonata quando si è scoperta quella nuova, adatta al proprio segmento.

Per le timeline dei social network sta accadendo un fenomeno simile. Si è passati dal semplice flusso basato sulla cronologia, ossia vedi gli ultimi contenuti pubblicati a contenuti basati su algoritmi che tengono conto di tutti i dati e comportamenti che consapevolmente o, più spesso, inconsapevolmente hanno lasciato nostre tracce nei database di Facebook & Co. Ognuno di noi vede i risultati di Google in modo totalmente diverso da altri e la timeline di Facebook o Twitter non sono dei semplici post collocati in ordine cronologico ma la scelta avviene sulla base di una serie complessa di parametri gestiti da un algoritmo che viene continuamente aggiornato al solo scopo di mantenere o aumentare il nostro coinvolgimento. Vediamo più in alto i post delle persone con le quali interagiamo di più, che hanno idee in comune con le nostre, delle quali semplicemente ci siamo trattenuti un po’ di più a leggere un pensiero. Gradualmente viene creata attorno a noi una cerchia di persone che la pensa come noi. Questo fenomeno si amplifica nei gruppi, in particolare quelli chiusi, dove gli amministratori espellono i soggetti che si discostano dal membro ideale che approva la linea di pensiero della massa degli iscritti. Attorno a noi viene creata una bolla, quella che è stata definita Eco-Chamber, Camere di Eco, ovvero dei luoghi di dialogo dove tutti fanno eco a tutti e sono accettate solo le persone che perorano le medesime idee, mentre chi si oppone è affrontato con violenza.

 

All’interno di questi gruppi le notizie vengono selezionate, sezionate e interpretate in modo da mettere in evidenza solo gli aspetti che servono a confermare il pregiudizio e la linea di pensiero che in quel gruppo si perora.
Ciò avviene non solo nei gruppi chiusi, dove solo gli iscritti possono partecipare alla discussione, ma anche nei contenuti aperti, grazie ai meccanismi di estrema personalizzazione delle timeline.

Ogni interlocutore che si discosta dalla linea diventa un avversario. Si verifica lo scontro o l’interruzione della comunicazione. In tal modo si crea una profonda frattura tra grandi masse di utenti, e le grandi masse, come si può immaginare, con tali generi di dinamiche sono in una certa misura manipolabili.

Ci sono studi che hanno individuato nella candidatura alle primarie delle elezioni presidenziali degli Stati Uniti d’America del 2016 di Ted Cruz contro Trump una dinamica di questo tipo.

Come i social network possono condizionare le elezioni

 

Per quanto riguarda le elezioni politiche, il tema in discussione non è solo la capacità di un qualsiasi mass-media di influenzare in qualche modo i risultati. Ciò è inevitabile, in quanto l’elettorato deve pur votare sulla base di informazioni raccolte da qualche parte. La novità di questi anni è le modalità complesse e poco trasparenti con le quali dei messaggi riescono a raggiungere determinati soggetti.
L’intero sistema dell’advertising si basa sulla personalizzazione. Altrimenti non sarebbe un settore di successo. C’è però poca trasparenza su quali messaggi pubblicitari vengano abbinati a determinati contenuti.
Nei sistemi elettorali maggioritari, dove il risultato globale può variare di molto se una contea in più o in meno fa pendere da una parte il risultato di uno stato in bilico, se ci sono molti incerti fino all’ultimo minuto è possibile con facilità polarizzarli e farli cadere, complice l’analfabetismo funzionale, da una parte e dall’altra, con post che stimolano l’odio, pur non essendo direttamente riferibili ai messaggi elettorali. Convincere una parte, anche non grandissima, di indecisi o di coloro che non intendono andare a votare, può rivestire un’importanza cruciale.

Account falsi o di persone inesistenti vengono creati ad arte per raccogliere traffico, e poi, al momento giusto vengono dirottati verso lo scopo.
Come i post che furono indirizzati su target personalizzati ad esempio destinati a chi è Pro-Hillary, magari per convincerli che era inutile andare a votare perché la Clinton aveva già praticamente vinto. Facebook ha rilevato investimenti di molti dollari in advertising divisivo.

In Italia si sono notate delle pagine buongiorniste trasformarsi e passare a fare campagna per il sì al referendum del 4 dicembre 2016.
https://www.vice.com/it/article/yvaa5b/le-pagine-buongiorniste-passate-a-fare-campagna-per-il-s-al-referendum

Si è anche notato l’uso di meccanismi di automazione dei processi di consenso, con dei “Newsmaking bot”, veicolati da account finti.

In altre parole, sono state create delle vere e proprie fabbriche di bufale a livello industriale, come quella che in Macedonia ha organizzato un team di persone pagato mille dollari al mese in occasioni delle elezioni americane per mettere in giro notizie false.

Anche in Italia si è scoperto che siti e pagine Facebook con milioni di follower con nomi che richiamavano testate di informazione pubblicavano fake-news sollecitando il pubblico su posizioni razziste, complottiste, antisemite, antiabortiste, no-vax, anti-bigpharma, pro-miracolismo-medico, omofobe, no-euro, revisioniste, cospirazioniste, a favore di personaggi come Putin, Assad. Il proprietario di tali siti possedeva anche pagine di stampo ultra-cattolico, con continue pubblicazioni di immagini sacre, e post dai toni miracolistici, o fans incrollabili di Medjugorje. Come dimostrato da questo esperimento, il tema cattolico è tra quelli in grado di attrarre quantità enormi di persone, anche verso pagine create dal nulla da un buontempone https://www.vice.com/it/article/3bx388/cosa-ho-imparato-pagine-facebook-cattoliche. Il passo tra la generazione di traffico e la monetizzazione è molto breve. Il puzzle creato da questo insieme di posizioni ideologiche, benché sembri ricordarci persone che aderiscono ad una certa linea di pensiero, (grillina? salviniana?) in realtà non fa altro che ricostruire l’elenco dei cavalli di battaglia che tra i post nei social network hanno più traffico e quindi più monetizzazione.

La polarizzazione conviene a tutti, tranne che ai cittadini/utenti/elettori

In questi casi le entità in gioco sono almeno tre: il politico committente, l’agenzia che mette in campo le capacità tecniche, il social network che mette la propria disponibilità, oppure anche si propone, ovviamente a fini di lucro, per perfezionare l’operazione. Nessuno di questi soggetti può essere sottratto a giudizi di eticità che eventualmente potessero essere formulati. Semmai si può dire che prese di posizione forti in questo ambito non ce ne siano state. La notizia forse è proprio questa.

Come uscire dalla bolla della disinformazione

 

Non bisogna ignorare segnali che lasciano intravedere nuovi atteggiamenti. Molte persone stanno iniziando a provare disagio nel postare contenuti visibili a tutti e dei quali è impegnativo gestire ed immaginare le reazioni dei contatti, e l’idea che essi si costruiscono della nostra persona. Ciò fa sì che molti stiano concentrando le condivisioni di contenuti maggiormente sui gruppi di facebook e su whatsapp o sulle stories, che hanno una durata temporale definita, in quanto tali ambienti danno la sensazione di poter esercitare un maggiore controllo. Ciò è almeno indice di una graduale presa di coscienza, di una autodisciplina, nell’uso dello strumento, anche se si tratta di atteggiamenti che trasferiscono in ambienti più nascosti la polarizzazione.
I profili gestiti in modo più evoluto vedono la creazione di liste di contatti appartenenti a tipologie di amici in base al loro tipo di polarizzazione. Ad esempio si può creare una lista per i fondamentalisti dell’animalismo, una per i fondamentalisti cattolici, una per i fondamentalisti grillini, una per i cospirazionisti. Ciò non è che una versione più evoluta delle bolle, ma quanto meno consente di postare dei contenuti di qualità ma suscettibili di reazione da parte dei polarizzati e che, selezionato il pubblico giusto, non solleveranno polveroni.

La sensazione è però che occorrerebbe andare alla radice della questione. Il problema della disinformazione e della disgregazione creata dalla polarizzazione è serio e la divulgazione scientifica ha un ruolo fondamentale, nelle scuole, nei mezzi di informazione mainstream e digitali.

Prendere di petto le persone fortemente polarizzate è totalmente inutile.
Anche chi si trova sul fronte dei debunker dovrebbe uscire dalla bolla. Occorre un dialogo costruttivo, ma non è semplice.
Si ha a che fare con soggetti che avrebbero bisogno degli strumenti che consentissero di comprendere appieno ciò che stanno leggendo. Si usa a tal proposito molto la definizione “Analfabetismo funzionale”. Occorrerebbe una valorizzazione della cultura digitale. Una comprensione dei bias cognitivi. Insomma acquisire una nuova consapevolezza di come funziona il mondo, e che la complessità che ci circonda non può essere spiegata con dei tweet o dei gruppi Facebook.
In caso di successo, paragonabile alla cura di una malattia, può subentrare una fase di risveglio da una sorta di depressione iniziale, ma dopo ogni crisi si può rinascere sotto nuovi presupposti.

Tali soggetti hanno una percezione falsata della realtà. Non hanno una visione chiara delle bolle in cui essi ed i loro antagonisti si trovano.

Un esempio di regole di condotta, imposta dall’alto o una autoregolamentazione da parte dei social network, potrebbe essere il blocco della personalizzazione dei feed in prossimità delle elezioni. In tal modo, le timeline che gli utenti vedrebbero nel periodo pre-elettorale sarebbero basate semplicemente sul criterio temporale e non sarebbero suscettibili di manipolazione da parte di alcuni soggetti o altri. Una sorta di par-condicio o silenzio elettorale digitale. Un’idea potrebbe essere quella di consentire agli utenti di scegliere tra una timeline “gestita” ed una puramente cronologica.

Di fondamentale importanza potrebbe essere la trasparenza dell’advertising, in modo tale da consentire di sapere quali sono i messaggi pubblicitari associati a determinati contenuti. E su questo punto pare che i social si siano svegliati, pur con grave ritardo: https://www.facebook.com/zuck/posts/10104133053040371

Più in generale, sarebbe fondamentale consentire a tutti, a partire dalle scuole, una conoscenza di base del funzionamento del metodo scientifico. Ma non basta. Occorre consapevolezza circa il ruolo delle emozioni nella conoscenza. Occorrerebbe uno sforzo nella educazione alle relazioni. Mescolare la scienza, la conoscenza, con l’aspetto emotivo e relazionale è un aspetto delicato. I bambini che a scuola si chiedono perché nell’ora di religione si insegnano cose che vanno in contraddizione con l’ora di scienze. Fenomeni come questi sono la dimostrazione della confusione che può esserci in un cervello in formazione, soprattutto se aggiungiamo gli stimoli che ricevono dalla comunicazione pubblicitaria e dai social.

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Personalizzare l’aspetto di ogni sezione del sito con Gantry5 in Joomla

Pubblicato su 17 Novembre 2017 di Vito Palumbo

Gantry è un framework di gestione dei template per Joomla e Worpress. Esso consente, anziché di avere un template preimpostato, di avere una sorta di generatore di template, in modo tale da poter ottenere illimitate possibilità di gestione di layout, stili e tante altre funzionalità delle nostre pagine web, alla portata sia di chi è in grado di destreggiarsi con, ad esempio, i fogli di stile Css, sia di chi si limita ad utilizzare le funzionalità messe a disposizione dalla componente Gantry5.

Qui vi descrivo un esempio di personalizzazione dell’aspetto di una sezione di un sito web, in particolare l’applicazione di uno sfondo ad una pagina legata ad una voce di menu.

L’esempio è effettuato su redlightskyscraper.com , il sito web del gruppo musicale Red Light, Skyscraper! , genere post-rock

Qui di seguito i passaggi da effettuare per aggiungere una immagine di sfondo ad una pagina. In questo caso si tratta della pagina associata alla voce del menu Joomla, denominata “Shop”.

Aprire la componente Gantry5 ed entrare nella sezione "Outlines"
Aprire la componente Gantry5 ed entrare nella sezione "Outlines"
Duplicare un tema, ad esempio default, da prendere come base per il nuovo outline
Duplicare un tema, ad esempio default, da prendere come base per il nuovo outline
Modificare il tema creato selezionando il tasto di editazione
Modificare il tema creato selezionando il tasto di editazione
Nella sezione che consente di modificare lo stile del tema duplicato, andare nella sezione, ad esempio, "header" e selezionare la funzione che consente di scegliere l'immagine di sfondo.
Nella sezione che consente di modificare lo stile del tema, andare nella sezione, ad esempio, "header" e selezionare la funzione che consente di scegliere l'immagine di sfondo.
Selezionare le immagini da una cartella del Pc, se non sono già state caricate in precedenza
Selezionare le immagini da una cartella del Pc, se non sono già state caricate in precedenza
Selezionare l'immagine di sfondo scelta per personalizzare la pagina della sezione associata alla voce di menu assegnata al tema
Selezionare l'immagine di sfondo scelta per personalizzare la pagina della sezione associata alla voce di menu assegnata al tema
Nell'area delle assegnazioni dei temi, attivare il tema (con il colore verde) in corrispondenza della voce di menu desiderata, in questo caso "Shop"
Nell'area delle assegnazioni dei temi, attivare il tema (con il colore verde) in corrispondenza della voce di menu desiderata, in questo caso "Shop"
Salvare l'assegnazione del tema alla voce di menu
Salvare l'assegnazione del tema alla voce di menu
Salvare lo stile, una volta effettuate le modifiche
Salvare lo stile, una volta effettuate le modifiche
Verifichiamo come l'immagine di sfondo appare nella pagina scelta. L'immagine appare troncata in quanto la pagina contiene pochi contenuti
Verifichiamo come l'immagine di sfondo appare nella pagina scelta. L'immagine appare troncata in quanto la pagina contiene pochi contenuti
Modifichiamo l'articolo a nostro piacimento
Modifichiamo l'articolo a nostro piacimento
Avendo aggiunto del testo e delle righe vuote a riempire la pagina, l'immagine di sfondo appare pressoché per intero.
Avendo aggiunto del testo e delle righe vuote a riempire la pagina, l'immagine di sfondo appare pressoché per intero.

 

Pubblicato in Blog | Tag: Cms, Gantry, Joomla, modificare un template joomla, template | Lascia un commento |

Introduzione al CRM, la gestione della relazione con il cliente

Pubblicato su 16 Novembre 2017 di Vito Palumbo

Il CRM Customer Relationship Management

Il CRM è quell’insieme di strumenti che consentono all’azienda di tenere traccia di tutte le azioni che vengono compiute nella storia della relazione con il proprio parco clienti e con i potenziali nuovi clienti. Si tratta di un’attività di gestione che tipicamente ci mette in condizioni non solo di tenere memoria degli eventi che sostanziano il dipanarsi di una relazione, ma anche di sviluppare una strategia di controllo delle attività e monitoraggio dell’approccio al mercato. Si tratta di un controllo effettuato in maniera strutturata rispetto al caso in cui non utilizzassimo alcuno strumento e procedessimo secondo altre logiche. Qui non può che entrare in campo l’information technology, con tutte le relative potenzialità, per cui ci riferiamo a software.

Le principali attività gestite con un software CRM

Prima di tutto l’esigenza è avere un archivio centrale unico e sempre aggiornato dei dati anagrafici dei contatti che sia sempre aggiornato con i dati sia dei clienti che dei potenziali clienti in modo da assicurare a tutti i soggetti coinvolti una accesso a tali informazioni, ad esempio per programmare eventi futuri, affidare un promemoria al venditore circa l’attività da compiere nei confronti di un determinato cliente, programmare di campagne di marketing etc.

Di fondamentale importanza è concentrare nel sistema di CRM lo storico della corrispondenza, in particolare via e-mail. Ciò rappresenta un asset informativo importante perché offre la possibilità all’azienda di poter ricostruire il succedersi degli eventi, delle azioni compiute da entrambe le parti, visto che la gran parte della comunicazione nelle aziende avviene oggi via e-mail.

Gestire Campagne Marketing: la possibilità di inviare email massive non è semplicemente uno strumento per raggiungere una serie di soggetti con un messaggio e-mail velocemente e con un’unica azione. Se lo strumento di CRM è in grado di offrire una segmentazione dei clienti e potenziali clienti le campagne e-mail saranno allo stesso tempo massive ma mirate, cioè contestualizzate alla tipologia di interlocutore che abbiamo a di fronte, alle informazioni che ha scelto di ricevere o che ipotizziamo possa ritenere utili.

Tenere nota delle telefonate effettuate e ricevute:
il telefono, benché impegnativo, rimane ancora uno strumento importante nelle attività quotidiane che caratterizzano il rapporto con i clienti. Una traccia storica delle telefonate aiuta la condivisione delle informazioni, fornite e ricevute durante le chiamate, con tutta l’azienda ed al tempo stesso avere la possibilità di capire ciò che è stato detto e la comunicazione che è intercorsa con ciascun cliente.

Comunicare appuntamenti:
Gli appuntamenti che vengono fissati possono interessare sia l’area commerciale che le attività sui clienti effettuate dopo la vendita, come l’assistenza clienti ed altri tipi di interventi effettuati presso i clienti. Far confluire tutti gli appuntamenti in una base dati unica può avere diversi motivi di utilità, sia a livello operativo che di controllo.

Misurazione
Capire quali sono state le prestazioni di una determinata campagna di marketing. Spesso il marketing lavora su una serie di idee ed iniziative, però non sempre è facile capire quali tra queste azioni ha prodotto risultati più o meno interessanti.

Documentazione
Con una soluzione software CRM è possibile creare un sistema di gestione documentale per tutti i soggetti obiettivo delle nostre azioni. Alla scheda di un cliente, ad esempio, sono associate, assieme ai dati anagrafici, agli appuntamenti, anche tutta la documentazione che è stata scambiata con il soggetto.

Elemento portante del CRM è il supporto alla fase di vendita.
Tenere traccia delle opportunità di vendita è sicuramente una delle pietre miliari da tenere presente quando implementiamo un sistema di CRM. Ciò significa fornire al venditore uno strumento per essere focalizzati per avere un controllo su tutto ciò che fanno nell’attività commerciale. Avere una visione completa e precisa delle trattative e delle opportunità di vendita in essere aiuta a non farsi trovare preparati di fronte alla possibilità di chiudere una vendita al momento giusto e secondo le giuste modalità, senza, ad esempio, abbandonare un potenziale cliente che si era quasi conquistato.

Effettuare delle previsioni
La previsione è un’attività che, soprattutto in capo alla direzione vendite, grazie al CRM, può svolgersi avendo come base dei dati possano mettere in condizione di capire dove si andrà a parare, ad esempio con i livelli di vendite alla chiusura di una scadenza mensile o trimestrale.

Il CRM si può estendere oltre la fase di acquisizione di nuovi clienti e nella fase della vendita, in quanto può occuparsi della fase della gestione della fase post vendita, tipicamente l’assistenza. Il cliente acquisito è infatti una fonte preziosa di ulteriori opportunità per l’azienda.

Perché utilizzare un CRM

Venditori
Il venditore è sicuramente uno degli attori principalmente coinvolti nell’uso di questo sistema. Egli, utilizzando bene il CRM, ha come primo strumento di operatività il controllo delle trattative. Stare focalizzati, avere chiaro ciò che stiamo facendo e dove è opportuno puntare e dedicare maggiore attenzione ed al tempo stesso avere una visione storica di tutte le attività commerciali che stiamo ponendo in essere, senza dimenticare nulla, gestire puntualmente le risposte ai clienti ed avere il controllo della propria attività.

Direzione commerciale
L’attività previsionale interessa la direzione commerciale che può avere una forma di cruscotto, con dei numeri che indicano dove potremo arrivare nei priossimi mesi ed al tempo stesso avere un
controllo dell’attività non in termini negativi ma positivi con lo scopo di aiutare il venditore circa le difficoltà o le problematiche che sta incontrando, con l’obiettivo di risolverle assieme a lui.
Altra esigenza è la condivisione delle informazioni (conoscenze ed esperienze) con tutta la struttura di vendita. Ciò assume un valore importante nella strategia di implementazione di un crm.

Marketing
Il reparto marketing ha a disposizione uno strumento in grado di misurare i risultati delle iniziative messe in campo. Si tratta di un aspetto molto importante. Gli strumenti oggi a disposizione offrono un grande aiuto al fine di capire cosa è stato fatto, come lo abbiamo fatto, dove siamo arrivati.
Al tempo stesso il CRM, utilizzato correttamente, aiuta anche a mettere un po’ più in contatto, in relazione, quello che vede il marketing rispetto a quello che fa il settore vendite.
Vi sono infatti situazioni in cui il marketing può essere rappresentato come un ambito che vola molto alto, con sofisticate strategie di alto livello, mentre il venditore, colui che tutti i giorni si trova giù, sul campo, nell’arena quotidiana del mercato, ha una visione molto diversa, avendo una realtà con cui confrontarsi molto differente.
La visione strategica del marketing andrebbe invece allineata con l’aspetto operativo delle vendite. Con il CRM tale collegamento può avvenire in maniera più agevole.

Settore IT
L’ingresso in azienda di un software non può non coinvolgere il reparto IT. Il responsabile dei sistemi informativi deve gestire un unico software integrato, senza coinvolgere diversi strumenti. Ciò rappresenta una semplificazione. Se il CRM poi è in cloud, anche l’onere di gestione e manutenzione dei server viene alleviato, in quanto tutto è gestito dal provider del software.
Gli utenti possono gestire la totalità delle operazioni, o quasi.

La soluzione software ideale per il CRM deveoffrire tutti gli strumenti per fare automazione della forza vendite, ossia velocizzare e rendere immediati una serie di passaggi in modo da creare efficienza sull’attività dei venditori

La direzione commerciale ha uno strumento di misurazione delle perfomance di vendita che può oggettivamente avere una visione dell’andamento dell’azienda sul mercato di sbocco, in modo tale poter effettuare delle decisioni ponderate, come apportare miglioramenti nella propria strategia.

Un unico sistema integrato si occupa della gestione delle attività e unisce l’operatività di tutti i soggetti, ognuno dei quali sa di cosa si deve occupare, e il software è in grado di evidenziare cosa è stato fatto, con quale stato di avanzamento ed i relativi risultati.

Un sistema di automazione avanzata è poi in grado di introdurre un processo di workflow management, cioè innestare delle regole e degli automatismi in modo tale che il sistema lavori per noi nel far scattare determinate procedure, avvisarci di determinati eventi, costruire determinati flussi di dati. Un esempio tipico può essere un nominativo che giunge da un form presente sul sito internet e che viene automaticamente assegnato al venditore che si occupa della zona di provenienza del nuovo lead. In tal modo il flusso dei dati è velocizzato e controllato con un miglioramento generale delle attività. Nel caso specifico, tra l’altro, la fase di inserimento di dati è effettuata dallo stesso utente che si è registrato.
Allo stesso modo possono essere automatizzati altri eventi, in altri ambiti dell’area marketing e vendite.

Di fondamentale importanza sono gli strumenti di reportistica integrati all’interno del software di CRM, in mood tale da avere dei resoconti circa gli eventi successi, sintetizzati in un report di stampa.

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I notai e la Blockchain

Pubblicato su 24 Ottobre 2017 di Vito Palumbo

La Blockchain è stata pensata, oltre che per il bitcoin e le altre criptovalute, proprio per disintermediare la burocrazia, gli autenticatori e i tenutari di registri di atti di dominio pubblico. I notai, che incarnano perfettamente queste categorie, cosa fanno? Si inventano la Blockchain intermediata: Notarchain! Una contraddizione in termini. Sarà che hanno paura di perdere il loro privilegio di casta?

Sono graditi commenti…

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Intelligenza artificiale: qual è il limite da non superare

Pubblicato su 23 Ottobre 2017 di Vito Palumbo

L’intelligenza artificiale partendo da zero è ancora più imbattibile nel complicato gioco cinese Go. La macchina riesce ad imparare ed elaborare delle mosse incomprensibili al cervello umano perché troppo complesse. L’attività umana non è però fatta di soli giochi da tavolo. E’ possibile affidare a queste macchine argomenti che mettano a rischio il nostro libero arbitrio? Una macchina del genere potrebbe imparare su di noi molto più di quanto immaginiamo, analizzando in modo avanzato i nostri dati e i nostri comportamenti online, prevedendo ciascuno di noi come si comporterà ed eventualmente agendo per condizionarci. Accadrà anche questo?

Questa è la traccia di un articolo in progress.

Sono graditi commenti

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Perché diventare un influencer se i follower li ho già sul lavoro?

Pubblicato su 21 Settembre 2017 di Vito Palumbo

Diventare un influencer? Che necessità ha un manager, che magari gestisce già una struttura composta da risorse, processi, e soprattutto persone, di diventare un influencer? Non gli è già sufficiente gestire i rapporti con le sue risorse nei social, cosa che già può portare risultati positivi con un impegno già non banale?

Da pareri di persone che hanno esperienza in realtà strutturate a livello internazionale sento che una presenza sul web con un blog istituzionale, che raccolga la narrazione e il dialogo sui processi aziendali è ormai diventata d’obbligo.

Una strutturazione di questo tipo può secernere in maniera più, per così dire, naturale, e forse più efficace, una comunicazione prodotta anche in prima persona dal manager che sia in grado di lasciare il segno.

Una presenza di comunicazione per raccontare qualcosa all’esterno, non è un qualcosa di frivolo, narcisistico, un luogo dove vantarsi e presentare l’immagine di sé che si vorrebbe far apparire per colmare qualche carenza di autostima o, peggio, vuoti nella propria giornata professionale, come paiono essere ormai diventati i social network. Dietro ogni vita professionale, c’è sempre una visione del mondo, un episodio di vita, una scintilla che ci ha scatenato in noi la passione per quello specifico settore, e che ci rende migliori della concorrenza. Non sempre l’esperto di marketing di turno riesce, da solo, a far percepire questo “quid” che può fare la differenza. Se è il manager ad esporsi in prima persona, con il proprio viso, la propria storia, il lettore percepirà che quella realtà aziendale è fatta di persone autentiche che ci mettono la faccia, non un semplice marchio, una persona giuridica, studiati a tavolino.

Si dovrebbe concepire un luogo dove rendere trasparente il proprio lavoro e incanalare e gestire un racconto del processo aziendale cui si partecipa, evitando che a farlo sia qualcun altro, all’interno o all’esterno. Che sia poi aperto all’esterno o chiuso, fa ormai poca differenza in un mondo dove tenere un segreto sarà sempre impresa sempre più difficile. La temperatura emotiva, la qualità di tale presenza poi sta ad ognuno dosarla. In Italia è troppo diffusa l’idea che raccontare il proprio lavoro sia pericoloso, perché si rivelerebbero chissà quali segreti professionali di cui altri potrebbero approfittare.

Diventare un “Influencer” può avere indubbi vantaggi, perché consente di occupare una scena nella propria nicchia, prima che siano altri a farlo, e diventare la voce di riferimento per la porzione di pubblico che costituisce l’interlocutore ideale.

Diventare un “Influencer” non è un risultato che si ottiene per una propria decisione. Lo decide il mercato dei lettori. Il lettore ti legge se hai qualcosa da dire, ma ti legge meno se dici qualcosa per una decisione presa dall’oggi al domani, magari dietro consiglio di esperti di comunicazione. Ti legge di più se strutturi un sistema gestito di comunicazione del tuo lavoro, e, ovviamente, se hai qualcosa da raccontare, ovvero, se non sei “uno qualunque”.

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Pagella elettronica: perché non piace alle famiglie?

Pubblicato su 30 Giugno 2017 di Vito Palumbo

La pagella elettronica non piace affatto ai genitori.
Il malcontento corre sul filo degli ultimi messaggi di fine anno scolastico nei gruppi Whatsapp organizzati dai genitori.

Genitori social, genitori su Whatsapp, su Wikipedia, genitori multitasking.
Il ruolo della madre e del padre di scolari e studenti si fa via via sempre più complesso. Per chi ha familiarità con pc, social e web non è però impossibile stare quanto meno sul pezzo, complici strumenti tecnologici a supporto della didattica.

 

Immagine proveniente dal sito https://vittcaltabiano.files.wordpress.com/2010/01/vittorio-pagella-3-elementare-retro.jpg

La vecchia pagella scolastica scritta a mano con timbro e firma.

Per capire come mai, nonostante ciò, la pagella dematerializzata non piace alle famiglie basta osservare le vecchie pagelle di un tempo.

La pagella elettronica rientra nel contesto della introduzione di processi che tendono a migliorare le procedure con l’obiettivo della razionalità e dell’efficienza.

Tale processo peraltro è ancora incompiuto. Il “Piano per la dematerializzazione delle procedure amministrative in materia di istruzione, universita’ e ricerca”, che doveva seguire l’introduzione del Registro Elettronico in via facoltativa, avvenuta nel 2012, non è ancora partito.
Una interrogazione parlamentare ha anche sollevato dubbi circa la validità giuridica di tali documenti se manca la firma, digitale po meno, dei docenti https://www.anquap.it/categorie03.asp?id=3411

Sul sito web o sull’app per smartphone confluiscono tutti i dati d’interesse per le famiglie: il registro elettronico, con compiti, assenze, ritardi, note disciplinari, compiti assegnati, orario scolastico, i voti di scrutinio, gli orari di ricevimento, fino alla pagella di fine anno con la possibilità di visualizzare i voti e ufficializzare la presa visione, senza neanche il bisogno, per i genitori di recarsi a scuola nel mese di giugno per il ritiro del responso.

Tutto molto efficiente, veloce, al passo con i tempi, ma la pagella elettronica proprio no. Quella non piace alle famiglie. Perché?

D’altronde il file .pdf consente di stampare a proprio piacimento il foglio con i voti, sulla carta che si preferisce, con una grammatura più o meno importante e sull’app si ha memoria, negli anni, dello storico dei voti. E’ comodo. Tutte le informazioni sono a portata di mano, in qualsiasi momento. Almeno dovrebbe essere così, nel caso di mio figlio il registro elettronico mancava di molte informazioni, come ad esempio l’orario scolastico.

Pagella elettronica si scarica online

La pagella si scarica con un click

Per capire come mai la vecchia cara pagella sia rimasta nel cuore e nell’immaginario delle famiglie, basta osservare una di quelle vecchie pagelle di una volta. La pagella, che fosse portatrice di buoni o cattivi voti, era un documento che aveva i crismi della ufficialità. Era vergata a mano dalla perfetta grafia dell’insegnante su un pesante cartoncino. Era come una sorta di mini diploma che sanciva la fine dell’anno scolastico con il suo verdetto inesorabile, con tanto di timbro e firma a mano.

Il genitore si recava a casa in una certa data, tornava e portava dentro casa con un documento che conteneva il verdetto circa il profitto del figlio in quell’anno. Nessuno prima di quella fatidica data era a conoscenza dei voti.

Con la pagella elettronica vengono meno una per una tutte queste caratteristiche. Non c’è l’effetto sorpresa. Il genitore apre l’app, magari in una pausa di lavoro o in tarda serata mentre tutti dormono, e dopo ore, magari la mattina dopo, comunica l’esito a voce, ad esempio edulcorando o rincarando la dose rispetto ad una brutta pagella, oppure tira fuori uno smartphone o un tablet.

Per non parlare del giudizio testuale. Ho scoperto in questi giorni di fine anno scolastico che il giudizio testuale che accompagna i voti non è altro che una traduzione in parole dell’andamento dei voti tra primo e secondo quadrimestre. Il giudizio in altre parole è automaticamente stilato con un algoritmo e solo in alcuni casi gli insegnanti decidono di modificarlo aggiungendo farina del proprio sacco, per usare una espressione a loro cara ai miei tempi. Qualcosa di aberrante.

La scuola di mio figlio Matteo, terza elementare, ha inaugurato quest’anno l’abolizione della pagella cartacea per chi avesse già visionato i voti online. Ed era la stragrande maggioranza delle famiglie. Da parte mia, inizialmente, c’è stata la tentazione di trattare con sufficienza l’atteggiamento ostile dei genitori, andati su tutte le furie quando si è capito che non sarebbe stato consegnato il documento cartaceo. Riflettendoci bene però, non mi sento di dare loro torto. Se proprio occorre continuare con quella che definirei ossessione per la valutazione, allora quanto meno traduciamo in un documento cartaceo l’esito del lavoro fatto durante l’anno e dell’impegno profuso durante l’anno. Magari fatecelo pagare quel pezzo di carta, ma stampatelo. Su una bella carta. Pesante. Senza svilire il giudizio sul lavoro dei nostri figli alla stregua di un videogioco o un post sui social.

Si potrebbe pensare ad una dipendenza dai dispositivi elettronici da parte dei nostri ragazzi, ma i dati dicono che loro amano la carta più di noi. Sono loro a tenere a galla i dati di vendita delle nostre librerie dalla crisi profonda della lettura cartacea. In Italia si legge di più, ma noi adulti leggiamo altro, essenzialmente per via della moda dei social.

Un invito allora: diamoglielo quel pezzo di carta!

 

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Bluewhale: anche scuola e sindaci rincorrono le bufale

Pubblicato su 28 Maggio 2017 di Vito Palumbo

La scuola italiana, ridicola, alle prese con la bufala #bluewhale rischia di creare danni a causa del fenomeno della emulazione? Si chiama “effetto Werther” e potrebbe essere alimentato da giornali e Tv.
Le reazioni a questa storia mi lasciano esterefatto e vi spiegherò perché, a mio avviso, è meglio che in questo caso la scuola non faccia nulla. La scuola italiana rischia infatti di cadere in un tranello, ma un tranello che essa stessa sta tendendo. Essa pensa di affrontare il problema del bullismo, del cyberbullismo e dei pericoli in rete catechizzando i genitori con degli inutili decaloghi e organizzando degli inutili corsi per gli insegnanti, evidentemente ritenuti non preparati a gestire fenomeni del genere. Ma parliamo di persone che, a volte, a mala pena riescono a mettere in funzione un pc, e c’è da dubitare circa la loro capacità di affrontare fenomeni di una complessità tale da non mettere d’accordo neanche gli addetti ai lavori.
Il risultato è quello di affidare a persone che non hanno le necessarie competenze argomenti così delicati, senza sapere cosa si trovano ad avere fra le mani, mentre in questa materia occorrerebbero professionalità di vario tipo, e un approccio cauto e multidisciplinare. Il suicidio infatti è sempre a rischio emulazione e contagio.
Qual è lo scenario che si pretende di disegnare? Che lo studente bullizzato chieda aiuto agli insegnanti?
Ebbene, a mio avviso, è improbabile che un ragazzo vittima di bullismo si rivolga allo stesso insegnante che lo valuta per chiedergli aiuto. Potrebbe farlo solo con una figura terza, percepita come amica, in grado di metterlo a suo agio perché è professionalmente preparata. Non è un caso che i sistemi scolastici che hanno fatto qualcosa di concreto per affrontare il fenomeno hanno istituito una figura apposita, il counselor, che agisce all’interno della scuola vivendo a stretto contatto con gli alunni. Si veda l’esempio finlandese.
E già preoccupa l’annuncio di sindaci e scuole di iniziative di “prevenzione” “per combattere il nuovo fenomeno Blue Whale”, un po’ come si fa per le epidemie di pidocchi, mentre la soluzione migliore sarebbe, come al solito, lasciare in pace i nostri bambini e ragazzi, non dare loro nuove idee. Chiunque sia genitore sa che non basta dire ad un figlio “non fare” quella cosa.

Nella serie tv statunitense prodotta da Netflix “Tredici” (13 Reasons Why) la figura dello psicologo a scuola assume una connotazione negativa perché non coglie i segnali della decisione della studentessa Hannah Baker di suicidarsi per una storia di bullismo. Figuriamoci quello che può accadere quando quella figura, come in Italia, neanche esiste. Quello che sicuramente mostra con efficacia questa serie tv è la distanza incolmabile tra il mondo degli adulti e quello degli adolescenti. E’ su questo che bisogna organizzare serie riflessioni. Su ciò che accade nei gruppi sociali costruiti non su internet ma racchiusi dentro involucri reali, fatti di mattoni e cemento: le famiglie e le scuole.

Con BlueWhale Challenge tutti stanno dando il peggio di sé: non si sa se sia un fenomeno realmente architettato da un astuto istigatore o una bufala, gonfiata ad arte per fare audience (ovviamente protendo per la seconda ipotesi), ma non è importante sapere quale sia la verità. Ciò che deve far riflettere è la reazione scriteriata dei media tradizionali e di internet (che però stavolta ne esce meglio con alcune analisi ben fatte), non la cosa in sé. Tanto che ci auguriamo che Berlusconi possa decidere di chiudere il programma televisivo Le Iene. Ma è troppo desiderare!
Alla fine ci si rende conto che si tratta di un fenomeno non reale, ma solo di natura emotiva e mediatica e solo in quanto tale ha acquisito concretezza. Anzi è proprio tale reazione a procurare potenzialmente il danno. E il danno si verifica non tanto e solo navigando in rete, ma quando ignari bambini di 9 anni o poco più tornano da scuola e raccontano a casa di BlueWhale, mentre nulla sarebbe accaduto se fossero rimasti a casa con dei genitori dotati di un po’ di senno. Invece la notizia varca la soglia di casa, mette una insana curiosità, i genitori presi dal panico, senza sapere neanche esattamente di cosa si tratta e diffondono a macchia d’olio l’allarme, complice una cattiva televisione, una cattiva stampa e le solite catene di Sant’Antonio su Whatsapp e gli altri social network.

Eppure, persino la polizia postale, ma anche la dott.sa Maura Manca, Presidente dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza (http://www.radio24.ilsole24ore.com/programma/melog/trasmissione-maggio-2017-130104-gSLAPpTKKC) intervistata dalla trasmissione Melog di Radio 24 affermano che si tratta semplicemente di un fenomeno emotivo e che non sono accertati suicidi causati direttamente da questo fenomeno.

L’esperto in materia di disinformazione Paolo Attivissimo, intanto, smonta BlueWhale pezzo per pezzo, e si capisce che la vicenda ha i classici contorni della bufala: si mettono insieme elementi veri che poco e niente hanno a che fare tra loro e il puzzle assume i contorni della verosimiglianza. I video di persone che si tuffano dai tetti non hanno nulla a che fare con il fenomeno; L’uomo arrestato in Russia, detto “master”, è stato in realtà arrestato nel 2016 e nulla ha a che fare con BlueWhale Challenge, ma solo con gruppi di istigazione al suicidio, senza conferme sul fatto che suicidi poi siano realmente avvenuti. Nessuno costringe con la forza a partecipare a questo gioco. Insomma, si tratta di quei fenomeni che esistono solo se qualcuno crede in essi.

Accecati dal fenomeno mediatico, ci si dimentica di ricordare che i ragazzi praticanti l’autolesionismo ci sono sempre stati, e non mi riferisco all’abuso di sostanze, ma all’autolesionismo vero e proprio, cioè coloro che si procurano tagli, in particolare sulle braccia. Ne ho visti con i miei occhi in ambito scolastico anche nei tardi anni ‘80 o inizio ‘90. Il bullismo scolastico, le risse all’uscita di scuola, la violenza, le umiliazioni, i gruppi che inneggiano al suicidio, i gruppi di mistero, quelli che fanno leva sulle curiosità e le paure adolescenziali non sono fenomeni nuovi, ma i genitori e la scuola di questo non si sono mai occupati. Anche l’adescamento online è un fenomeno noto. Ma solo ora che la balena blu viaggia sulla rete ci si accorge, e nel modo peggiore, di queste realtà. Perché? Perché in tal modo si può attribuire alla rete, e non ai propri figli ed alla propria famiglia le responsabilità.

E’ difficile sapere dove sia partita questa dinamica virale, ed ora che il fenomeno mediatico ha già avuto eco mondiale fioriscono gli emulatori, i mitomani, che potrebbero non avere nulla a che fare con chi ha originato il fenomeno, ma che sfruttano la grande curiosità originata da questa storia in cui sono caduti, con inutili sensazionalismi, anche i media mainstream.
La dinamica prevede la presenza di un curatore e di una vittima chiamata ad eseguire la sfida. Molte persone per curiosità hanno creato account appositamente per fingersi curatore o vittima, rispettivamente per aiutare le vittime o smascherare i curatori. Il gioco dura 50 giorni, una sfida al giorno, come ad esempio due giorni di privazione del sonno o la visione forzata di film horror. E’ inutile dire che sono nati come funghi pagine e gruppi che inneggiano contro la BlueWhale Challenge, senza sapere che gli atteggiamenti trasgressivi si alimentano a volte proprio per la curiosità, quando si verifica il lancio di simili anatemi.

Le sfide stesse non sono affatto cosa nuova sul web. Ci si accorda, con un gruppo, che però in un certo senso ti costringe a compiere delle azioni, con dinamiche simili al bullismo. Si viene nominati e si è vincolati ad eseguire la sfida. Si va da innocenti fotografie fino alle bevute di grosse quantità di alcool o altre amenità. Si tratta di percorsi relazionali antichi che tendono ad isolare l’individuo, a ricattarlo con la minaccia di rivelare qualche notizia sul proprio conto, instaurare così un controllo sociale e perfino un legame affettivo con il carceriere. Ci si lega, in una certa fase, ad altri giocatori, in un gruppo cui ci si uniforma. Fenomeni di questo tipo, ripeto, non nuovi, non avevano mai avuto finora una risonanza come quella di BlueWhale.

La creduloneria, fino ad estreme conseguenze, non è neanch’essa cosa nuova. Così come non lo sono le bufale. Una volta si chiamavano ”leggende metropolitane” ed il web è solo uno strumento che amplifica questi fenomeni.
Le truffe basate sulla creduloneria non sono neanche un fenomeno ristretto al mondo adolescenziale. Cos’è che spinge, infatti, delle signore attempate a credere alle chiacchiere on line in un inglese o francese stentato di un ragazzetto Ghanese che si finge un ufficiale dell’aeronautica americano che le promette l’amore, ricevendo in cambio migliaia di euro in virtù delle cosiddette “truffe amorose”, dietro le quali si celano vere e proprie organizzazioni?

Un fenomeno analogo accade nei ragazzi nati in occidente, di famiglia islamica e che decidono di arruolarsi nell’Isis, oppure coloro che si fanno ingaggiare da gruppi satanici.

Insomma la rete al solito viene additata come responsabile di questi fenomeni virali, in realtà l’analisi va spostata nelle menti nelle personalità che sono in una situazione di difficoltà.

Qual è la soluzione? Distribuire psicologi in ogni dove? Non lo so. Però qualche idea qualcuno potrebbe averla.

Google, ad esempio, potrebbe implementare un sistema in grado di verificare l’origine di un fenomeno virale, attraverso l’utilizzo dei dati di cui dispone sulle chiavi di ricerca utilizzate in serie. Sapere che vari pezzi di una storia sono roba vecchia, sono incoerenti tra loro, a volte può già bastare a rendere il pubblico consapevole.

Una soluzione del genere però, uno dei tanti possibili tecnicismi, non andrebbe al cuore del problema.

Non si tratta, a mio avviso, come alcuni affermano, di mancanza di valori, piuttosto si potrebbe parlare di un vuoto. Un vuoto, di sogni, di passioni, di curiosità, di creatività, di relazioni positive, di contenuti, di spessore, di senso critico, un vuoto culturale. Questo vuoto rende deboli ma purtroppo è un vuoto che viene riempito e viene riempito di cose negative come ad esempio l’ansia, la paura, il vizio, la superficialità.

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Vito Palumbo 13 maggio 2011 · Un mondo nuovo, un uomo nuovo, una nuova libertà (bozza)

Pubblicato su 13 Maggio 2011 di Vito Palumbo

Questo articolo è una bozza, sono graditi commenti, critiche, integrazioni.

“Niente sarà come prima”. Abbiamo sentito questa frase dopo l’11 settembre del 2001, dopo la crisi finanziaria partita dal 2008, dopo il disastro Giapponese del 2011 e così via dicendo. Se nulla è come prima, è anche vero che poco è cambiato dentro di noi. Oppure i cambiamenti stanno già avvenendo senza che di essi si sia creata una consapevolezza collettiva?

Le vecchie ruvide e concrete frustrazioni della libertà hanno lasciato spazio a nuove subdole sottili forme di oppressione, cui si aggiunge la difficoltà di riconoscere quale sia il vero liberatore.

Cosa ha lasciato di buono la crisi finanziaria della fine del primo decennio dal 2.000? Una batosta dopo la quale rialzarsi per proseguire ignari e barcollanti nella stessa direzione? Oppure un uomo nuovo, una nuova consapevolezza, un  nuovo modo di pensare e di vivere?

E’ solo l’inizio della fine dell’impero del consumismo, della faccia malata della competitività come stile di vita? Oppure si è creata un nuovo target di consumatori, l’ultima frontiera del marketing, una semplice evoluzione dei gusti, una nuova tendenza, quelli che mangiano biologico, chilometro zero e slow food, comprano prodotti equosolidali, utilizzano software open-source, leggono i libri di Saviano? Gente che pur sempre si fa identificare e si identifica con dei consumi.

Fiorisce, sia tra gli intellettuali che nei discorsi di persone comuni, la sensazione che il mondo stia correndo sopra un binario dal quale molti si chiedano non sia il caso di scendere. Dalla parte opposta ci si aggrappa alla locomotiva sperando che continui a correre non allo stesso modo, ma sempre più forte, l’unico modo per non farla fermare. La cosiddetta Speed Economy.

Si prevede che la prossima bolla speculativa sarà quella dell’IT, dove start-up vedono la luce in maniera velocissima vedendo piovere grandi quantità di denaro, per poi essere acquisite o fallire nel giro di pochi mesi.

Arriverà un uomo nuovo, veramente libero, capace di guarire dal feticismo che ci costringe ad accumulare nelle nostre tasche, nelle borse, nelle automobili, nelle cantine, tonnellate di oggetti inutili che servono a colmare un vuoto che si è creato dentro di noi?

Appare sempre più evidente la polarizzazione tra coloro che hanno preso coscienza e coloro che proseguono indefessi nella corsa. Una lotta tra ansiosi e depressi?

Da una parte persone iperattive, che cavalcano i ritmi veloci, quindi superficiali della modernità. Privi di scrupoli, pronti a vendere l’anima al diavolo, arroganti proprietari di Suv e cani da combattimento, palestrati gli uomini, tacco 12, e chirurgia estetica le donne, ben interpretati dal fotografo di Dagospia Umberto Pizzi. Dall’altra gli zen, i fanatici del salutismo, yoga, e via dicendo. C’è il rischio che entrambe le strade assumano le forme di un’ideologica ossessione compulsiva? Secondo Antonio Galdo, autore del libro “Non sprecare”, occorre evitare di sostituire un’ossessione compulsiva, quella per il consumo, con un’altra ossessione, “francescana”, come l’ecologismo ossessivo ed ideologico, che ha causato l’inaugurazione di una nuova categoria di avvocati civili negli U.s.a., quella dei divorzi da ecoincompatibilità.

E’ banale dire che Tiziano Terzani, dopo il suo viaggio per il mondo alla ricerca di sè stesso, ma anche di una guarigione, anche e soprattutto con metodi alternativi, al cancro che l’ha colpito si è conclusa con la morte?

Spesso si tratta di una corsa, quella verso il potere ed il denaro ad ogni costo, destinata a fermarsi per una fine cruenta. La mente va a Saviano che racconta dei camorristi che vivono sotto un pollaio, che sono lanciati sempre più forte ai vertici dell’economia mondiale, eppure non hanno davanti a loro alcuna prospettiva di rientro ad una vita “legale”, anche se sono a capo di una florida multinazionale dell’illegalità che fattura miliardi. Vengono però alla mente anche Gheddafi, Mubarak, Ben Alì, persino Berlusconi. Ci si chiede in quali circostanze avverrà la caduta del loro regime dopo tanti anni di dominio arrogante ed illegale e fonte di odio. Tra le risposta che viene istintivamente da dare c’è una fine violenta, un esilio su un’isola tropicale, meno probabile il passaggio del comando a un erede.

Più probabile che il cambiamento vero, se mai ci sarà, sarà dentro di noi. Persone più sagge consapevoli creeranno una società migliore. Chi sarà rappresentante di tali persone non potrà che essere migliore di chi ci rappresenta oggi.

Sono tanti i filoni che hanno cercato di farsi interpreti di una controcultura, di una alternativa ad una supposta visione dominante delle cose. Alcuni di questi si sono istituzionalizzati e cristallizzati trasformandosi essi stessi in dominatori.

Siamo banali se si riassume questa tendenza in un elenco. Una volta c’erano i comunisti, gli ecologisti. Oggi si parla di sostenibilità, responsabilità sociale, creatività culturale, slow food, slow economy, downshifting. Ma è solo un citare a caso.

Eppure nessuno di questi fermenti filosofico-culturali è riuscito a trovare la quadratura del cerchio, la soluzione teorica e politica per risolvere il problema del consumo delle risorse del pianeta, per assicurare nel contempo benessere materiale e felicità  e benessere interiore. In generale, salvo lodevoli eccezioni, per ottenere dei risultati “ecologici” occorre spendere, i prodotti eco-friendly sono un lusso, un articolo per un target elevato ed hanno un prezzo superiore, per le aziende il rispetto dell’ambiente e la responsabilità sociale sono una voce negativa per il conto economico che si aggiunge agli altri costi. La tutela dell’ambiente è una fonte di spese, mentre nascondere la spazzatura sotto il tappeto è una fonte di utili, spesso illeciti.

Molti di coloro che si fanno sostenitori dell’idea di decrescita felice la fanno coincidere spesso con un atteggiamento sobrio, rinunciatario, semplicemente attento verso i consumi come in una sorta di autoflagellazione imposta a sè stessi da uomini egoisti e peccatori. E’ invece più corretto ed utile evitare di far coincidere la decrescita felice con il concetto di impoverimento. Errore tanto più madornale quanto più coincide con tentazioni di inalberare crociate anti-tecnologiche.

Secondo Maurizio Pallante, autore di diversi saggi sull’economia, sullo sviluppo, sulla crescita il segreto è distinguere tra merci e beni. Esistono merci che non fanno del bene, non conferiscono utilità. Se trovo la fila in autostrada il Pil aumenta rispetto al caso in cui trovi la strada libera perché consumo più benzina. La decrescita felice più che un argomento di studio da economisti è un paradigma culturale che ha bisogno di maggiore tecnologia, magari orientata verso altri obiettivi, e di un diverso stile di vita. Secondo Pallante bisogna puntare sulla riduzione dei consumi di energia e della produzione di rifiuti inutili e solo in subordine nella scala delle priorità puntare sulle energie rinnovabili e sulla raccolta differenziata.

Tra i segnali che ci farebbero capire che il mondo è davvero cambiato c’è quella che molti hanno preconizzato: la fine del marketing. Questo evento, come tante rivoluzioni non decretato magari da un segnale eclatante, non è semplicemente una saturazione, concetto non estraneo alla logica del marketing stesso. L’uomo nuovo, l’uomo davvero libero sarà quello in grado di essere pienamente consapevole del fatto che il mondo della comunicazione e del marketing possono veicolare informazioni potenzialmente non utili, non vere, destinate a condizionare le nostre vite a vantaggio di altri, pur essendo in apparenza appaganti. Per questo arriverà, c’è almeno da sperarlo, un giorno in cui la sfida tra i metodi sempre più sofisticati di condizionamento delle coscienze e dei comportamenti arriverà ad un punto massimo. Per ora la spinta consumistica è talmente forte, il condizionamento operato dal marketing è talmente pervasivo da mettere in secondo piano aspirazioni che si potrebbe credere siano parte dell’uomo moderno, quelle alla libertà di pensiero, alla conoscenza della verità, ad una società fondata sul rispetto condiviso delle regole di convivenza. L’istinto al non rispetto delle regole per ottenere dei vantaggi economici è alla base del dilagare delle truffe sotto ogni forma, delle mafie, alla mancanza della sensibilità rispetto alla legge. L’estrema complessità del vivere moderno, la distrazione perpetrata nei nostri cervelli dal consumismo, rende normali truffe da miliardi di euro, l’instaurarsi di regimi dittatoriali soft. Di fronte a tali fenomeni macroscopici, troppo grandi per essere visti, l’indignazione rimane un frutto sterile e autoreferenziale.

Ed è proprio l’eccesso di complessità uno dei fattori di disumanizzazione della vita moderna. Bene ha fatto il cartone animato SouthPark a prendere in giro le “Terms of service” che gli utenti di internet, software ed altri sistemi di comunicazione, come il social network:  il personaggio del cartone animato Kyle vede piombare degli agenti della Apple che lo avvisano di aver inavvertitamente acconsentito ad una delle condizioni presenti nelle 55 pagine che si raccomanda sempre di leggere attentamente e da approvare con un click e che prevedeva che l’utente accettasse di far diventare il proprio corpo parte di un nuovo device un po’ umano, un po’ browser, un po’ programma di posta elettronica.

Ne “I creativi culturali. Persone nuove e nuove idee per un mondo migliore” Enrico Cheli e Nitamo F. Montecucco stilano l’identikit dell’uomo nuovo, da loro denominato “Creativo culturale”. I due autori cercano di capire quanti siano gli appartenenti a questo gruppo di persone che hanno tra le loro parole d’ordine: pace, sostenibilità ambientale, economia etica, qualità della vita, medicine olistiche e crescita personale

Si tratta di persone preoccupate per il mutamento climatico, l’inquinamento, la conflittualità e l’ingiustizia sociale. Quante sono? Sono veramente una esigua minoranza, o costituiscono un gruppo rilevante, se non addirittura una maggioranza? Se si tratta di una maggioranza perché il mondo non si muove verso direzioni coerenti con quelle che sono le aspirazioni di questa maggioranza?

Secondo i risultati presentati dal libro tali persone sono tra il 60% e l’80% dell’intera popolazione dei paesi messi sotto esame e più di un terzo di essi non sta con le mani in mano e si impegna in modo particolarmente coerente meritando l’appellativo di creativi culturali, cioè “creatori attivi di una nuova cultura”. Una cultura emergente che respinge assunti sinora dominanti quali materialismo, scientismo, sviluppo economico illimitato, sfruttamento indiscriminato della natura, competizione sfrenata, individualismo, e che promuove nuovi valori atti a orientare i rapporti con se stessi, con gli altri e con il Pianeta in direzioni più sane, pacifiche ed eco-sostenibili. Il libro descrive caratteristiche, dimensioni e protagonisti di tale cambiamento epocale.

Nelle aziende non sono stati a guardare. C’è stato, a partire da questa particolare congiuntura economica, uno sforzo di cambiamento che nel gergo imprenditoriale è stato identificato con i seguenti termini: responsabilità sociale d’impresa, sostenibilità, etica d’impresa. La sensazione è però che si tratti di parole d’ordine frutto di un apposito studio commissionato ai responsabili marketing e comunicazione a suon di investimenti milionari. Fioriscono premi e riconoscimenti che esaltano le iniziative delle aziende verso la responsabilità sociale, indici che valutano la sostenibilità d’impresa che si affiancano agli indici di borsa. Viene il dubbio che si tratti di sforzi che premiano chi ha la possibilità di permettersi tali investimenti piuttosto che individuare chi realizza realmente buone pratiche, magari in piccole aziende, buoni rapporti con i dipendenti, rispetto per l’ambiente.

Secondo Federico Rampini le cose non potranno, ma soprattutto non dovranno essere più come prima.

Rampini, nel suo libro “Slow Economy” sostiene che abbiamo di fronte a noi una lenta e inesorabile rivoluzione verde che ci porterà a produrre e a consumare in modo più consapevole; si percepisce nei comportamenti dei governanti e degli elettori il desiderio di un “Neo-socialismo” che spinga gli stati ad assumere iniziative politiche più ponderate e attente alla qualità dei servizi, del welfare e della vita in generale. Insomma, secondo Rampini si va profilando la rivoluzione tranquilla della “Slow Economy”: un nuovo modello di sviluppo dove la crescita a ogni costo non sarà più la prima preoccupazione delle nostre società. Un modello di sviluppo in cui, come in una sorta di “Slow food” esteso a ogni aspetto della vita, ritroveremo tutti insieme un nuovo (e antico nello stesso tempo) equilibrio con il nostro ambiente lavorativo, naturale e sociale.

Secondo Rampini il diritto alla felicità nella costituzione degli Stati Uniti si è concretizzato nell’ammasso di una quantità di oggetti inutili nelle cantine delle villette con giardino dei suburbs residenziali delle famiglie americane. Oggetti acquistati in un’orgia inebriante di offerte speciali. Il consumismo americano risale agli inizi del ‘900 quando Ford mise in commercio una automobile che erano in grado di acquistare gli stessi operai che la fabbricavano, dando luogo a quello che Rampini definisce come quasi una forma di socialismo. Da lì si è passati negli anni ad una forma di repubblica fondata sui consumi e ad una tossicodipendenza da consumismo, il gusto per il possesso, la frenesia da shopping, il bisogno di guadagnare, l’incapacità di usare le merci acquistate, l’accumulo come forma di nevrosi e sofferenza, con persone di ogni età e fascia sociale ipnotizzati, quasi rimbecilliti dai messaggi pubblicitari. La degenerazione estrema di questa economia fondata sul consumo è stato il capitalismo “cheap”, inteso secondo due significati: cheap come “a buon mercato” (da qui la proliferazione, anche in Italia di discount e outlet) con l’illusione di dare a tutti la possibilità di acquistare tutto, soprattutto ciò che è superfluo, con un conseguente abbassamento della qualità reale dei beni acquistati, e infatti “cheap” significa anche “scadente”. Uno scadimento della qualità intrinseca degli oggetti, non costruiti più per durare, che squalifica anche coloro che, pur qualificati ingegneri e tecnici esperti, sono chiamati a produrli, e che si accompagna ad una distruzione delle risorse naturali.

Il cibo è il paradigma ideale per capire cosa è successo nell’ultimo secolo. Si è passati dalla fame alla obesità. Dalla famiglia rurale come unità economica elementare che mangia ciò che produce, al fast food.

La slow economy è una scelta di qualità, di stile di vita in un orizzonte di economia in crescita lenta. Una sospirata via di fuga diversa cambiamenti in termini di benessere sociale anche in assenza di un’economia di crescita così come finora si esigeva. La crisi finanziaria è stato un evento traumatico ma ancora non metabolizzato. La speculazione e le vecchie cattive abitudini non sono cessati anche se un certo cambio di costumi verso una certa frugalità che sottotraccia si è comunque verificato. Bisognerà verificare che non si tratti però di una moda passeggera e di sola apparenza, una voglia di austerity impostasi per forza di cose nelle chiacchiere da salotto, ma che rischia di concretizzarsi nel riorientare poche e poco determinanti scelte di acquisto, secondo quello che è un marketing della crisi che serve però pur sempre a vendere di più e far consumare di più.

Per esemplificare una via di uscita, Rampini evoca quelle arti marziali orientali nelle quali un lottatore pur esile di fisico fa tesoro della capacità di sfruttare il peso dell’avversario.

Ci si può chiedere se ci sia il rischio che non si tratti di una nuova moda, di un nuovo mercato di una nuova ideologia che si tende inevitabilmente ad imporre agli altri e che si affermerà secondo le vecchie regole: d’altronde anche un libro, va venduto e per raggiungere una diffusione delle idee che contiene va promosso secondo metodi simili a quelli che servono per vendere i prodotti boicottati delle multinazionali arroganti e i cibi di Slow Food saranno cucinati in dei ristoranti che dovranno lottare sul mercato per affermarsi. L’ideologia dello slow food di Petrini, dell’ecologismo rischiano di essere dei marchi di successo apposti su delle idee sterili di risultati?

Ad essere messo in gioco sarà il concetto di libertà. La convinzione di essere liberi si è concretizzata nella libertà di comprare e possedere e nel manifestarsi di nuove forme di schiavitù. L’autore di “Adesso Basta”, Simone Perotti, prima di decidere di cambiare vita si ritrovava con i suoi colleghi di Happy Hour, ricchi, con le stesse camicie fatte su misura, con le iniziali cucite nello stesso punto, rinchiusi nella loro divisa, come il burqa delle donne di Kabul. Una delle escort di Berlusconi, usciva, seguita dai giornalisti dal residence pagato dal grande capo, con il viso completamente coperto per non farsi ricosnoscere, è il burqa all’occidentale, la chiusura del cerchio.

Allora dov’è la vera libertà? La vera felicità, o il vero equilibrio?

Che piaccia o no, si ha l’impressione che non si possa prescindere dall’avere a che fare con chi conosce meglio il nostro cervello, come il meccanico che riconosce dal ruggito del motore lo stato di salute di una macchina.

Michele Trimarchi, psicologo, fondatore della neuropsicofisiologia negli anni

’70-’80, presidente ISN (INTERNATIONAL SOCIETY OF

NEUROPSYCHOPHYSYOLOGY) di Roma racconta tante cose con vigore, quasi rabbia, anche su podcast e su Youtube. tra le tante cose racconta di ingegneri costretti a mettere a rischio il loro cervello perché hanno a che fare per la maggior parte della giornata con l’aridità di procedure, formule, numeri, computer, di mamme che gli portano il proprio bambino indisciplinato sentendosi rispondere che tra i due, la mamma e il bambino, ad essere saggio è proprio il bambino. Leggendo quanto esposto da Trimarchi si può concludere che la vera libertà risiede oggi nella rimozione di quei condizionamenti che, fin dalla vita fetale, se non dal concepimento, si accumulano nel cervello, andando a limitare e ad alterare la fisiologia dei bioritmi ontogenetici, producendo tutti quei conflitti intrapersonali ed interpersonali che sono la causa prima di qualsiasi forma di patologia. In altre parole “geni si nasce, imbecilli si diventa”, ed una sommatoria di persone in preda a tali conflitti dà luogo a nuclei sociali, coppie, famiglie, ed in ultima analisi una società malata che non promette nulla di buono per le future generazioni. Le nuove tecnologie della comunicazione rischiano di diventare un ulteriore rischio per il nostro cervello, in preda alla confusione, alle credenze indotte e condizionate dalla religione, dalle credenze, dalle ideologie, oggi dal marketing, dal consumismo, etc..

Con l’utilizzo che si fa oggi di internet, smartphone, videogiochi, e quant’altro il nostro cervello, ma soprattutto quello di bambini e ragazzi cervelli potenzialmente in possesso di capacità straordinarie di realizzare processi naturali di elaborazione e verifica delle informazioni, contemplazione, riflessione, creatività, analisi, profondità di pensiero e di racconto divengono preda di informazioni spazzatura ed adescatrici. Per chi usa internet in maniera poco saggia ormai lo scopo è la rapidità, l’ottenimento di informazioni, la possibilità di connettersi contemporaneamente su varie piattaforme, effettuare contemporaneamente sul computer e sullo smartphone numerose operazioni contemporaneamente, aggiungendo poi le operazioni della vita “fisica”. Ciò, come ricorda Trimarchi, da una parte dimostra quanto meravigliose siano le potenzialità del nostro cervello, dall’altra quanto lo trattiamo male. Un cervello-conteplativo, capace di esaltarsi e di godere la visione di un tramonto accompagnato dalla quinta sinfonia di Beethoven, lo costringiamo a diventare un “cervello-Google”, accompagnando la chat di Facebook, con un bicchiere di Coca Cola sul tavolo, il cellulare che suona, etc. Un multitasking che nel nostro cervello appare come una disarmonica confusione.

La schizofrenia, una malattia per la quale una persona arriva a ritenersi Napoleone o una gallina, è in realtà un fenomeno collettivo in quanto pochi, secondo Trimarchi, si relazionano con la realtà in ciò che dicono, in ciò che desiderano, in ciò che progettano e in ciò che fanno.

Quanto all’originalità dei contenuti presenti sui nuovi media, spesso le informazioni sono un rimestare la solita minestra e riproporla riscaldata, magari peggiorata, su nuove piattaforme, nuovi canali. A rimetterci sono l’epica e il racconto, l’analisi e il profondo, la provocazione vera, la scoperta di cose veramente nuove. La superficiale riproposizione conformista, con il copia e incolla, di contenuti prelevati altrove prevale sul paziente lavoro di ricerca che si poteva fare fino a qualche anno fa in una biblioteca o con la caccia di notizie sul campo, nella realtà vera. Persino Google ha deciso di riformulare il proprio algoritmo che regola l’ordinamento dei risutati di ricerca premiando i siti con contenuti originali e non copiati. Il web insomma peggiora la nostra mente o sviluppa nuove capacita’ e varia l’intelligenza?

Ad essere messo in crisi è l’”Io” cosciente, quello che Trimarchi definisce un direttore, un pilota, la parte del cervello deputata alla verifica delle informazioni e degli scambi di energia che nell’ambiente vengono in contatto con l’essere umano e che le elabora creando coscienza e consapevolezza. L’emisfero destro del cervello è in grado di riconoscere la verità, identificare “fisicamente” e fisiologicamente le informazioni che lo raggiungono. Si tratta dell’emisfero definito di solito creativo, ed è in grado di riconoscere la fisicità dell’informazione, attraverso la propria memoria genetica a differenza dell’emisfero sinistro che decodifica le informazioni ricevute secondo i codici appresi (lingua, grammatica, nozioni, regole, simboli). Se l’emisfero destro non viene messo in grado di elaborare, verificare le informazioni in modo tale che queste possano stimolare, informare e trasformare le varie aree cerebrali plasmando in maniera corretta il comportamento emozionale, razionale, creativo, allora al nostro cervello è impedito di intervenire per selezionare la risposta più corretta ai messaggi provenienti dagli organi di senso, dal corpo. In altre parole l’emisfero sinistro, senza l’aiuto dell’emisfero destro, è in grado di negare la verità che l’emisfero destro è in grado di riconoscere.

Al cervello è impedito anche di godere in maniera vera e profonda della propria vita, presupposto fondamentale per creare vita, perché della vita è assorbita una visione distorta.

La velocità delle informazioni che si pretende oggi non è fisiologica non consente al cervello di compiere correttamente il proprio lavoro di creare conoscenza e di godere di ciò che creiamo momento per momento. Nessuno ci insegna a verificare le informazioni, analizzandole nei contenuti formali e sostanziali. In altre parole alcune aree del cervello non vengono utilizzate nelle loro potenzialità. I bambini soprattutto rischiano di rimanere vittima di furbi capaci di sfruttare questa vulnerabilità.

Nuova libertà è la capacità di comprendere profondamente come gestire il proprio cervello e gestire la propria vita giorno per giorno, capacità fondamentali per capire come relazionarsi con il mondo. Cose che la psicologia finora non ha saputo affrontare in maniera tale da spiegare definitivamente cos’è l’”io”, come gestire il proprio cervello. La non conoscenza del proprio cervello e la non consapevolezza di sè rendono una macchina potenzialmente meravigliosa come il nostro cervello e con  esso il nostro corpo, una macchina che soffre, che si ammala, indipendentemente dallo status economico e sociale della persona che ne è proprietaria.

Ed è proprio la salute, il tema che viene attualmente di più ad essere frustrato. Mai come oggi c’è un grande bisogno di salute, nonostante la vita media stia sempre allungandosi.

Nonostante i progressi della ricerca scientifica, la presenza di sistemi sanitari pubblici, prospera un diffuso sbandierato benessere e un reale triste malessere. La domanda di salute che si percepisce sempre più pressante nella vita quotidiana non trova sempre risposte adeguate. Sul fronte dell’informazione sulla salute, c’è una diffusa ansia di sapere non placata da Internet. La Rete offre una valanga di informazioni, ma diffonde assieme paure e solleva ulteriori dubbi. Il virus dell’Aids creato in laboratorio, le scie chimiche, la cura di Bella, quella per la sclerosi multipla. Chi dice la verità? Chi va annoverato nella folta schiera di complottisti e propagandatori di bufale internettiane? Chi offre terapie e cure fa affari ed ha interesse a che l’attenzione, sana o malata, al tema della salute sia vivo. Alla diffusione di terrore ed ansie sanitarie fanno da controcanto i fautori delle medicine alternative per le quali tocca purtroppo fare opera di scrematura tra truffatori, ciarlatani e onesti ricercatori autonomi. Manca spazio forse per chi offre informazioni e servizi seri secondo metodi innovativi, come ad esempio nel campo della Medicina Funzionale Integrata, che andrebbe valorizzata per le caratteristiche di non invasività e per la capacità di mettere al centro la persona nella propria individualità biologica e nella propria totalità e complessità al fine di riportarla verso l’equilibrio perduto.

A fronte della domanda di salute si tende a rispondere secondo processi di cura eccessivamente medicalizzati e spesso controproducenti rispetto all’obiettivo di ripristinare il naturale equilibrio del nostro essere. File interminabili e spostamenti logoranti; uso della tecnologia non a servizio delle persone ma piuttosto della burocrazia medica e sanitaria; ambienti di cura inumani e malsani; approccio sanitario legato ai sintomi, ai singoli organi e alle cure farmacologiche; la persona trattata come un numero, un paziente che deve solo avere pazienza, quindi non deve pensare, esprimendo quello che sente; ricerca scientifica vittima dei corporativismi, smembrata in tante discipline che non comunicano tra loro e lontana dalle esigenze della vita quotidiana delle persone reali; metodi di cura ostaggio dei cartelli diagnostici.

La salute ha dunque bisogno di un grande cambiamento, di un approccio che renda consapevole ogni persona della propria salute come contenitore reale di ogni propria potenzialità. L’individuo è al centro e deve prendere in mano sè stesso, la propria vita, con cosciente presa di responsabilità per un cambiamento, per una evoluzione positiva del proprio essere. Questa sì che è libertà. Però parliamo di argomenti tecnici, complessi, per i quali non basta una vita per formarsi una idea, soprattutto se trovare le giuste fonti è cosa ardua.

Anche nel campo della nutrizione si tende a sostituire ciò che piace in seguito ai condizionamenti con gli alimenti armonici, naturali. Fa sapere Trimarchi come nel corpo di bambini in cura per disturbi del comportamento siano state trovate concentrazioni di caffeina tali da far ritenere che ci fosse in atto una vera e propria dipendenza da Coca Cola. Associare ad uno stimolo fisiologico come la fame uno stimolo condizionante espone al rischio di essere soggetti alla programmabilità del nostro comportamento da volontà esterne. Celebre è l’esperimento di Pavlov che dava al cane la carne associando ad essa il suono di un campanellino e notava che successivamente il solo suono bastava a far salivare l’animale. Il rischio è che il solo stimolo condizionante sia sufficiente ad attivare funzioni fisiologiche illudendo la persona che sta ricevendo stimoli fisiologici. Basti pensare al marketing associato all’infanzia e ci si accorge di come la figura del bambino nella pubblicità sia quasi esclusivamente associata al cibo.

Sul fronte dell’alimentazione, d’altronde, c’è molta confusione. Ci si affanna molto sul passaporto di un vitello, al fine di garantirne quella che è una delle ultime ossessioni della modernità: la tracciabilità. Si sa dove è nato, dov’è cresciuto, dov’è è accaduta la fine dei suoi giorni, magari gli si da un nome e siamo tutti tranquilli e fieri di farne cotolette. Peccato che se qualcuno prova a prendere un pezzo di quella carne per analizzarla, troverà tracce di antibiotici ed altre sostanze nocive.

Si fa fatica ormai a trovare un’etichetta di un prodotto alimentare che non decanti la biologicità del prodotto, un marchio di ecologicità, innocuità, se non qualche aspetto di salubrità o di terapeuticità. Magari si va ad analizzare quel prodotto e accanto alle nobili fibre, accanto alla tipicità del grano saraceno, alla tradizione del kamut, troviamo tracce di metalli pesanti. Per cui il nostro intestino godrà delle fibre, ma soffrirà assieme a tutto il nostro organismo.

Altro fronte caldo è l’educazione. La differenza fondamentale che Trimarchi sottolinea è tra istruzione ed educazione.

Basti pensare al cosiddetto effetto Pigmalione (o Rosenthal), che, citando Wikipedia, è l’effetto che deriva dagli studi classici sulla “profezia che si autorealizza” il cui assunto di base può essere così sintetizzato: se gli insegnanti credono che un bambino sia meno dotato lo tratteranno, anche inconsciamente, in modo diverso dagli altri; il bambino interiorizzerà il giudizio e si comporterà di conseguenza; si instaura così un circolo vizioso per cui il bambino tenderà a divenire nel tempo proprio come l’insegnante lo aveva immaginato.

L’errore che spesso si compie con il bambino è che egli non viene educato assecondando il desiderio di coscienza e conoscenza mettendolo in condizione di verificare le nostre informazioni attraverso l’emisfero destro ma lo si costringe a rievocare automaticamente informazioni accumulate nel tempo nell’emisfero sinistro attraverso il meccanismo condizionante premio/punizione, nel quale protagoniste sono soprattutto le paure.

I nemici del nostro cervello si nascondono nei posti più impensabili. Tra questi c’è una scuola nozionistica che si limita ad accumulare nel cervello di bambini e ragazzi, sotto lo schiaffo di un sistema premio/punizione, quantità sempre maggiori di informazioni, dopo aver fornito loro il codice per decifrarle, ma senza farle passare attraverso la parte del cervello che serve ad elaborarle, interiorizzarle e senza aver attirato l’attenzione spontanea con la soddisfazione della curiosità e del desiderio di scoprire il mondo creando coscienza e conoscenza. Se le informazioni sospinte a forza come in un imbuto all’interno del cervello non vengono verificate per decidere quali sono utili e quali inutili, In mancanza di questa verifica, vengono evocate inutilmente quelle informazioni già accumulate nell’emisfero sinistro per rispondere allo stimolo e che il cervello tende a difendere, premiando il formarsi di personalità conformiste e reprimendo i veri geni. Se l’Io riesce a tenere sotto controllo le informazioni si è maggiormente capaci di progettare le proprie azioni e verificare ciò che è vero e ciò che è falso. Il sogno, infatti, serve in genere proprio all’emisfero destro per sistemare ciò che l’emisfero sinistro ha recepito ma non interiorizzato. La paura della morte ad esempio non ha senso se il nostro corpo è progettato per vivere. Molte forme di fobia si manifestano come risposta del cervello in mancanza della consapevolezza e coscienza della vera natura degli stimoli esterni. Le difficoltà nella comunicazione tra i due emisferi provoca il diffondersi di personalità da Doctor Jekyll e Mister Hyde, famiglie “normali” nelle quali all’improvviso scoppiano crimini efferati, irreprensibili impiegati che sterminano i propri cari, studenti che aprono il fuoco sula loro classe. Lo stesso vale per la droga, per la demotivazione, per i conflitti ed i disagi e le altre forme di disagio che attanagliano tante persone.

Al bambino va consentito di sperimentare il piacere della scoperta. Egli non va bloccato nel suo desiderio di conoscere tutto quello che lo circonda non con stimoli artefatti che allontanano dalla fisiologia dello sviluppo e della conoscenza che non gli servono. Il gioco deve avere un valore per la reale futura capacità esistenziale per allenare l’individuo in vista della acquisizione della propria autonomia senza imitare gli adulti ma sperimentando la spontanea nascita di emozioni e sentimenti, come i cuccioli che fanno giochi che servono alla vita adulta. L’adulto non deve porsi nella posizione, nel suo ruolo di dominio e potere nei confronti del bambino ma fornirgli quella conoscenza che è in grado di riconoscere e che lo arricchisce e lo potenzia. Spesso alcune risposte e informazioni paralizzano i figli, il premio e la punizione sostituiscono la decisione spontanea di apprendere sapendo che l’informazione fornita è utile e piacevole. Gioia di comprendere, capire voler conoscere. La costrizione crea condizionamento e rifiuto. Saggezza, onesta felicità fanno parte già di noi. Non è un caso allora se sui giornali è possibile leggere notizie del genere: 8 bambini su 10 respingono la scuola.

La pervasività delle nuove tecnologie e dell’economia e la comunicazione basate su consumo creano un’abitudine alla velocità. Il risultato sono bambini capricciosi che vogliono tutto e subito. Bambini che non accettano il senso dell’attesa.

Il gioco è diventato pervasivo. Gran parte delle tecnologie hardware e le risorse di connettività vengono utilizzate in realtà per uno scopo ludico, spesso confinato all’illegalità, allo sfruttamento a fini di guadagno delle tendenze ossessivo-compulsive che il gioco può creare.  La tecnologia pervade per scopi ludici talmente tanto la vita di bambini e ragazzi che una volta entrati in una scuola che non si è adeguata ancora alle forme di comunicazione contemporanee da renderli dei clandestini digitali. Bambini abituati ad utilizzare macchine da gioco di una straordinaria complessità tecnologica si ritrovano a scuola a scrivere con un pezzo di gesso su una pietra nera levigata. Facebook e tutti i sistemi di comunicazione moderni possono essere in gran parte definiti come dei devices, o degli spazi virtuali di tipo ludico, nei quali la soddisfazione del gusto del gioco, dell’oggetto di status, da possedere è parte preponderante del successo. Lo stato italiano ad esempio è diventato un vero e proprio biscazziere, inventando di continuo nuovi giochi, sempre più veloci (il lotto diventa istantaneo, i numeri si danno ogni dieci minuti), con gravi danni per il cervello e il portafoglio di milioni di persone grazie alle nuove tecnologie digitali. E’ fondamentale che ci si renda conto di come la tecnologia vada valorizzata, utilizzata per scopi che realmente creano il benessere della collettività, risultati talmente importanti da poter definire in confronto il puro intrattenimento come una forma di abbrutimento. Di questo ha parlato anche Obama.

Persone che non sanno distinguere le informazioni utili da quelle inutili, creeranno una società preda di coloro che hanno interesse ad avere ai loro piedi non una pluralità di individui pensanti con una coscienza critica, ma una massa di clienti che si lascia fornire solo una rappresentazione della realtà, una verità fittizia, creata ad arte.  Solo ciò che è rappresentato secondo determinati mezzi e canoni di comunicazione viene percepito come qualcosa di realmente accaduto. Fatti realmente avvenuti, possono essere semplicemente silenziati o risultare rappresentati in maniera edulcorata, in modo tale che è come se non fossero mai accaduti. Un tempo la libertà era conculcata con la forza dal potere assoluto. Oggi c’è un’autodistruzione della libertà da parte di chi dovrebbe goderne. Ciò va a tutto vantaggio di chi ha interesse a creare una visione delle cose artificiale, una rappresentazione della realtà e non la realtà stessa. Il mondo della comunicazione e del marketing hanno facile gioco nel creare una visione delle cose che soddisfa gli interessi di alcune persone. Il risultato è che, pur vivendo nella società della tecnologia e dell’informazione, conoscere la verità diventa operazione più ardua. Gran parte di ciò che viene rappresentato attraverso i mezzi di comunicazione potrebbe essere falso, una messa in scena e ciò che non viene rappresentato semplicemente appare come qualcosa che non si è verificato.

La negazione della verità va di pari passo con la negazione della libertà.

Un esempio eclatante di negazione dellla libertà, in particolare della libertà di ricerca scientifica, è quello della fusione fredda.

Ne parla Emilio Del Giudice ricercatore dell’Istituto Nazionale di fisica Nucleare di Milano (http://www.radioradicale.it/scheda/304005/denaro-per-la-ricerca-o-ricerca-del-denaro-un-incontro-sulle-vicende-della-fusione-fredda-in-italia-con-un), personaggio in grado di rendere godibile l’ascoltare di scienza come l’ascoltare una commedia di De Filippo.

Da quello che si può intuire, la fusione fredda è stata ostacolata per motivi corporativi nel mondo della scienza e per gli interessi del mondo militare. Gli esperimenti vengono eseguiti con investimenti risibili, tant’è che i ricercatori, in particolare quelli di Caserta, sono intervistati in quelli che sembrano degli scantinati, con strumenti che sembrano ricavati dalla spazzatura di Napoli: bottiglioni di vetro con il tappo di ceramica, imballaggi per cd. Ormai è però palese come, dopo più di vent’anni dalla conferenza stampa di Fleishmann e Pons, derisi da tutto il mondo scientifico internazionale, che la fusione fredda sia una questione seria ed è stato mostrato come sia in grado di produrre davvero energia, e non in quantità trascurabili. Peccato che non sia ancora stata data una spiegazione scientifica, ma ciò non toglie che essa funzioni. Il fatto nuovo è che la ricerca è stata portata avanti soprattutto da chimici e i fisici delle particelle si sono sentiti spodestati in quello che sembrava un loro regno. E’ rarissimo, ricorda Del Giudice, che uno specialista nel proprio campo sia protagonista di una scoperta eclatante, perché egli è sempre in grado di trovare un motivo per cui la scoperta può non essere vera. Gli interessi economici in gioco nel settore del nucleare classico e del petrolio. Se poi una qualche ricerca ha qualche interesse in area militare, cioè può diventare un’arma, è allora probabile che venga sequestrata dagli eserciti. Se una ricerca scientifica appare bisognosa di grandi quantità di denaro pubblico, ancora meglio, perché sarà in grado di mascherare meglio, come accade in Francia, investimenti militari. Nel caso della fusione fredda si ha l’impressione che il mondo militare, che probabilmente stava già lavorando nei propri laboratori su materie attinenti alla fusione fredda, sia stato allarmato dalla scoperta proveniente da ricercatori civili indipendenti e temeva di farsela sfuggire di mano quando con in una conferenza stampa i due chimici Fleishmann e Pons osarono rompere frettolosamente gli indugi prima di venire a patti, per poi essere coperti dal ridicolo. La supposta non riproducibilità della fusione fredda secondo Del Giudice è dovuta alla cattiva esecuzione degli esperimenti condotti. Inoltre con la fusione fredda non c’è molta trippa per gatti, perché la ricerca viene effettuata con pochi soldi, spesso con metodi definiti “casalinghi” e il problema da risolvere sembra sia solo il riconoscimento ufficiale e teorico di un processo di generazione di energia che ha a sostegno un approccio scientifico di tipo più “soft” rispetto alla classica fissione nucleare. L’energia che serve per la fusione (fredda) di un nucleo di palladio è rilasciata in forma di un campo elettromagnetico che ha la giusta frequenza per ottenere il risultato ed è un campo che degrada in pochi secondi: è un processo che si potrebbe quindi definire “pulito”. Negli ultimi tempi dei ricercatori italiani hanno ottenuto a loro dire risultati strabilianti utilizzato il nichel e l’idrogeno al posto del deuterio e del palladio sostenendo che la strada inaugurata da Fleishmann e Pons non portava da nessuna parte. I due, Andrea Rossi e Sergio Focardi, accusati fra l’altro di nascondere un batteria sotto il tavolo, sembrano procedere in maniera più oculata rispetto ai due chimici americani: hanno mantenuto il segreto su alcuni ingredienti della ricetta, hanno creato una società in Grecia, paese ricco di nichel, e stanno presentando l’esperimento con delle spettacolari quanto artigianali dimostrazioni, di cui una in Svezia. La prospettiva affascinante è quella di avere una fonte di energia decentralizzata, non più fornita da enormi centrali come ora, ma autoprodotta più vicino possibile laddove serve, addirittura con dispositivi talmente piccoli da poter essere inseriti allinterno dei rubinetti dell’acqua calda.

Per questo tipo di ricerche, se di soldi c’è bisogno è, ad esempio, per l’utilizzo di strumentazioni molto costose di cui si ha la necessità per eseguire delle “analisi essenziali per la totale comprensione delle variabili in gioco” (http://www.progettomeg.it/FFredda.htm). I militari hanno avuto la bella idea di sostituire l’uranio al palladio nella reazione con il deuterio, creando nuove armi, utilizzate nella guerra in Iraq, in grado di fondere i carri armati e polverizzare completamente i corpi umani. Le esplosioni hanno come prodotto l’uranio impoverito trovato poi sul terreno. Un ingegnere tedesco che aveva analizzato i resti dei carri armati distrutti in Iraq fu arrestato al rientro in Germania e gli fu sequestrato il materiale.

Fenomeni simili non sembrano isolati. Le sorti della maggior parte degli scienziati pare legata al benvolere del mondo militare. Gran parte dei fondi pubblici per la ricerca arriva dal settore militare. Onoreficenze come i Premi Nobel, riviste scientifiche sono stati spesso negate a nomi, come il ricercatore italiano Occhialini, ostili al mondo militare. Gli scienziati che non vogliono vedersi tagliati i finanziamenti non devono occuparsi di argomenti come la fusione fredda se non nelle sedi giuste.

Nel 1999 Carlo Rubbia, appena nominato presidente dell’Enena commissionò una ricerca ad un gruppo di ricercatori dell’ENEA di Frascati, fra i quali Emilio Del Giudice, Antonella De Ninno e Antonio Frattolillo. Seguì da vicino la ricerca e fu prodigo di consigli. In pochi giorni il suo atteggiamento cambiò radicalmente, fu irreperibile e i ricercatori affermano che i contatti con lui si interruppero, ed i successivi tentativi di avere una risposta fallirono e la ricerca fu archiviata dall’Enea nel famoso Rapporto 41 e insabbiata. Stessa parabola seguì l’interessamento dell’EDF e dei ricercatori che si occupano in Francia di energia atomica, che andarono a spiare i ricercatori italiani che pensavano invece in una collaborazione, ma a questo non fece seguito nulla.

La vicenda della fusione fredda è dunque la dimostrazione di come non si abbia garanzia che la scienza sia sinonimo di ricerca di verità perché di essa si sono impadronite mani che vogliono perseguire interessi divergenti dal benessere collettivo.

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